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Infermieri. Ieri ed oggi una guerra bianca

di Redazione

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LA SPEZIA. Sono diversi anni che cerco di comprendere per quali motivi il vissuto professionale infermieristico soffre, in Italia, di pregiudizi e di scarsa considerazione, sia da parte di molti soggetti operanti all’interno dello stesso servizio sanitario sia, come ricaduta inevitabile, all’ esterno, nella nostra società. E anche osservo che, come un effetto collaterale, se non prevalente, di questa valutazione ‘'approssimata’’, il fenomeno ritorni sovente nel sistema mediatico e comunicativo nazionale.

Alla base di queste personali congetture due forti motivazioni. La prima è legata al ruolo: Infermiere dal 1980, penso di avere diritto, prima di chiudere il mio percorso professionale ( ma fra quanti anni? Ad oggi non è dato saperlo!) di veder accresciuto quel riconoscimento sociale nei confronti della categoria di appartenenza.

Il secondo è strettamente legato al primo, ma è vissuto anche come dovere, in quanto Presidente di un Collegio Infermieri (o IPASVI , come recita un acronimo ormai decotto perché – per esempio- le VI della sigla, cioè le Vigilatrici d’Infanzia, sono state sostituite dal DM 70 del 1997 con l’Infermiere Pediatrico…è successo ‘solo’ 16 anni fa!)

Non ho certo la presunzione di essere arrivato all’obiettivo, ma credo che l’analisi deve tener conto di molti aspetti variegati, e molto al riguardo è stato scritto in modo equilibrato, considerato lo scarso spazio disponibile, da Federica Dato pochi giorni fa, su lintraprendente.it.

Ci definisce come appartenenti ad una categoria litigiosa e divisa, e Dio sa se ha ragione. E poi dice che ancora noi non abbiamo compreso il nostro potere, io condivido con entusiasmo quanto scrive questa signora, e vorrei rilanciare, sempre sulle pagine elettroniche ed elettriche di Nurse 24, con una domanda ai colleghi e a chi vorrà dire la sua, se estraneo alla categoria ancor meglio: quanta è la ‘colpa’, a sostegno di questa situazione, del sistema sanitario (privato, pubblico) nel quale siamo inseriti? quanta è la ‘colpa’ della considerazione sociale verso gli Infermieri? e quanta responsabilità abbiamo NOI Infermieri in tutto questo?

Naturalmente, per noi Infermieri intendo tutti, ma proprio tutti: quelli che ci credono e si sbattono, e quelli che hanno "abbracciato" la Professione senza grandi motivazioni di base e sono "bruciati" dopo pochi anni; quelli che sono impegnatissimi in associazioni professionali e quelli che non se ne curano minimamente; chi trascorre pomeriggi d’estate a lavorare per il Collegio, e chi non voterà mai al rinnovo dei direttivi IPASVI (cioè l’ottanta per cento dei colleghi, che puntualmente si lamenta dell’esito delle votazioni, e delle scelte del gruppo che non ha assolutamente contribuito a eleggere, o a NON far eleggere..); chi svolge intensa (o meno, dipende) attività sindacale, oggi anche nelle "nuove" (hanno almeno 15 anni) sigle di categoria. Chi ci rappresenta, dunque, e chi soprattutto "si mostra" nelle attività, nel suo impegno quotidiano, e lo fa con le gesta e le parole, con la professionalità erogata.

Una categoria che è comunque sempre presente 24 ore all’anno in ogni contesto possibile, che non fa veri scioperi perché comunque va garantita l’assistenza. Che spesso, come racconta l’articolo citato, colleziona titoli accademici semplicemente NON spendibili. Insomma qualcosa di incompiuto, nonostante la presenza di Leggi moderne a "regolare" formazione e discipline operative.

Da quando ebbi il privilegio di lavorare due anni all’estero in un programma del Ministero degli Esteri, dipartimento Cooperazione allo sviluppo, appresi l’abitudine di osservare il mio Paese (e poi la mia categoria) dal di fuori, ma anche a guardare in direzione degli altri. A completamento della riflessione qualche spunto banale, in quei Paesi dove l’Infermiere si appoggia su tradizioni storiche forti, e specialmente su un vissuto e concreto spirito di appartenenza di categoria, la percezione del ruolo è più forte all’interno della stessa; ma lo è anche all’interno del Servizio sanitario; e lo è nel sociale; e naturalmente appare così anche sui media del posto.

Questo l’ho cominciato a capire alla fine degli Anni Ottanta del XX secolo, frequentando colleghe canadesi, al tempo con me in Egitto, seguendo i loro racconti, la loro storia di crescita verso una autonomia non fittizia, ma reale, dunque non solo confinata alla normativa (che pure c’è, ed è reale) come avviene troppo spesso in Italia.

L’ho valutato ieri, osservando come in Gran Bretagna l’Infermiere (che in una discreta percentuale, formata, è autorizzato a prescrivere farmaci…) costituisca categoria degna di enorme rispetto, vedi la scenografia della inaugurazione dei Giochi olimpici londinesi 2012, con le colleghe di un ospedale pediatrico della capitale scelte coi loro assistiti, in apertura evento, per mostrare al mondo il valore del welfare britannico oppure, scoprendo che alla sua dimissione dall’ultimo ricovero la Regina Elisabetta II ha stretto la mano a una coordinatrice infermieristica, per ringraziare tutto lo staff delle cure ricevute.(è cronaca, rispettivamente, del Luglio 2012 e del marzo 2013).

Lo leggo oggi, curiosamente, sulle pagine di un sito che racconta del Bhutan e che Vi propongo come spunto di riflessione. Leggete come il Paese considera "gli appartenenti alle Professioni Sanitarie…" 

"Per la formazione degli assistenti sanitari, del personale infermieristico, delle ostetriche è stata istituita nel 1974 la Scuola dell'Ospedale generale di Thimphu. I diplomati dalla Scuola costituiscono il cuore del sistema sanitario pubblico (…)"

Come riporta Federica Dato, anche noi sappiamo di essere il ‘cuore’ del sistema sanitario nazionale. Ed allora, perché queste enormi difficoltà a farci ascoltare? Perfino di fronte alle evidenze scientifiche prodotte e documentate: il lavoro di Needleman, tradotto in Italia dal collega Carlo Orlandi del San Raffaele, svolto in origine per l’università californiana di Los Angeles dimostra che, con meno Infermieri in corsia, aumenta il rischio di morte (oltre alle complicanze…) per gli assistiti: come si può tagliare sul numero degli Infermieri in servizio?

Nella nostra realtà, la Spezia, una lunga serie di pressioni e richieste coordinate fra sigle sindacali, Collegio IPASVI, struttura delle Professioni Sanitarie aziendale, ha portato a ottenere, con fatica, alcune deroghe dalla Regione Liguria per l’assunzione di qualche Infermiere. Contestualmente, senza colpo ferire, venivano "derogati" anche alcuni posti da Medico in numero nettamente più ampi, come se l’assunzione del Medico fosse naturale, e quella dell’Infermiere eccezionale.

Questa l'impressione ricevuta…nessuna obiezione, sia chiaro, alle assunzioni ‘’degli altri’’: ma è così complicato comprendere quanta ricaduta positiva può avere un numero adeguato di professionisti Infermieri in servizio (e, viceversa, negativa se è inadeguato?).

Probabilmente nel nostro Paese, fra i motivi che rendono la Professione vissuta come un qualcosa di utile, ma non indispensabile, ci sono retaggi culturali imbarazzanti, se ancora presenti nel 2013, forse scontiamo il fatto che esistono varie ambiguità intorno a questo mondo. Premesso che l’empatia, la compassione e la capacità di raccogliere la sfida di assistere (cosa complicata, complessa, emotivamente importantissima) fanno di questa attività qualcosa di speciale, è ovvio che il tutto deve anche misurarsi col bisogno di essere professionalmente all’altezza.

Ma in Italia si possono sentire frasi come quella da me ascoltata ieri sull'Intercity La Spezia - Genova :…’’sai, lei faceva …faceva, ecco, tipo l’ infermiera…stava con gli anziani…’’ (sarà stata una badante? Sarà stata una oss? Chi lo sa: per la signora, era ‘’una specie di infermiera’’…) oppure, abbiamo ruoli previsti da Decreti antichi, che disegnano "le infermiere volontarie" della Croce Rossa: ma "volontario" è un termine che contrasta col concetto di "professione", o ancora, quando i media attribuiscono a tutti coloro che agiscono in Sanità la qualifica di Infermiere, chiaramente non favoriscono il reale riconoscimento della categoria.

Mi piace chiudere questo contributo al ragionamento con il passaggio, storico, di un articolo dell’Egyptian Gazette di un giorno qualunque del 1941, a dimostrazione dello spirito di sacrificio che comunque, pur appartenendo al DNA dei sanitari, dovrebbe essere a mio modesto avviso riservato a situazioni d’eccezione (come quella descritta, che è davvero degna di rilievo) e non alla norma vissuta quotidianamente nelle corsie e nei servizi del 2013 d.C….

"...quando le forze tedesche avanzanti in direzione del Cairo conquistarono l’ospedale britannico di Marsa Matruh, gli oltre 100 membri dello staff si rifiutarono di abbandonare i feriti ricoverati, molti dei quali italiani e tedeschi (e dunque nemici, ndA). I medici e le infermiere decisero di rimanere sul posto, consegnando la struttura intatta alle forze dell’Afrika Korps in arrivo, assicurando continuità di cura coi sanitari tedeschi. Quando ne fu informato, il Feldmarshall Erwin Rommel si diresse immediatamente all’ospedale, e volle stringere la mano a tutto il personale – medico, infermieristico, ausiliario - ringraziandolo per le cure offerte ai suoi uomini, e garantendo a tutti un lasciapassare per la neutrale Svizzera..."

di Francesco Falli

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