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2 giugno

Una Repubblica nel fango. Una repubblica di fango

di Giordano Cotichelli

I numeri, da sempre, possono aiutare un po’ per capire la quotidianità della vita, specie quando si fa tragedia, come quella che ha colpito l’Emilia-Romagna e le Marche: 15 morti, miliardi di danni, storie e paesaggi spazzati via, lavori, sacrifici passati e speranze future. Forse, le immagini trasmesse da media e social di vario tipo restituiscono, più dei numeri, il quadro della situazione. Decine e decine di persone, con badili in mano, insozzate di fango, che si muovono in mezzo a sentieri scavati tra colline di rifiuti. Panorami di un colore, uniforme, che si era abituati a vedere altrove, da un’altra parte, laggiù o di là dove insomma, si sa, queste cose, ogni tanto accadono. Oggi è toccato a noi, ed altri, al sicuro, alzano le spalle. Altri pensano alle chiacchiere, agli affari, ad ogni tipo di speculazione da fare come sciacalli (o sciacalle) politici ed economici, mentre in migliaia piangono vite intere spazzate via da un’acqua cattiva, figlia degli uomini e non della collera divina.

Forse una delle più brutte ricorrenze repubblicane della storia

Una pizzeria colpita dall'alluvione che ha flagellato l'Emilia-Romagna nel maggio 2023 (foto da Facebook)

Forse il cielo non diventerà marrone come tutto quello che è rimasto quaggiù, nella Bassa. Certo è che l’odore di morte e distruzione permarrà ancora per molto, intossicando ambienti e luoghi, corpi ed anime.

L’estate non arriverà a mitigare nulla. Anzi. E l’autunno, e l’inverno, e tante altre estati ed inverni futuri continueranno a restare infangati. È già accaduto per molti altri.

In Veneto, Liguria, Sicilia, Piemonte e chissà dove altro ancora, in un paese che si pensava forte ma è stato ricordato quanto in realtà sia fragile; quanto sia stato reso fragile.

A Firenze l’Arno in piena, nel ’66, scosse l’Italia del Boom. Oggi si reagisce alla stessa maniera, ma la forza di resistere è minore. Di molto. Quanto impiegheranno quartieri e paesi spopolati, città e contrade svuotate a diventare la normalità di un paesaggio spettrale?

Alla fine, si sa, nella ricostruzione, molti vengono dimenticati, lasciati da soli, abbandonati da tutti, costretti a farsi fantasmi e ad abbandonare a loro volta sé stessi, la terra di sempre, la casa di una vita, la vera terra dei padri, umiliata e tradita prima ancora dagli uomini che dalla natura; e da quelli che parlano anch’essi della terra dei padri, di patria, senza averla mai servita.

La rassegnazione sostituirà gli aiuti quando questi finiranno, la follia mescolerà rancore e speranza, ed i signori del vapore già penseranno alla prossima scusa da inventare, colpa da attribuire, fatalità cui appellarsi.

Qualcuno un tempo ha detto che l’Italia è una Repubblica delle banane, con i suoi cacicchi locali e i suoi dittatori da operetta (tragica). A questa immagine, oggi, a distanza di 77 anni dalla sua nascita, si sono aggiunti anche i monsoni, non quelli tropicali, ma quelli figli di un modello di sviluppo sbagliato, arrogante, distruttivo, ladro e assassino. Ed eternamente bugiardo.

Trent’anni fa, mentre era ancora aperta la stagione di mani pulite, uscì un libro di Indro Montanelli e Massimo Cervi sulla storia d’Italia dal 1978 al 1993. Il titolo era: “Anni di fango”, e sottolineava il periodo che seguiva gli anni di piombo, quelli del terrorismo e delle stragi fasciste.

Se si volge lo sguardo all’oggi, la denominazione sembra di tremenda attualità visto il disastro, annunciato, delle inondazioni avvenute. Montanelli coniò il termine per un paese che festeggiava il secondo miracolo economico e l’ubriacatura degli anni ’80, mentre la cleptocrazia si insediava stabilmente nella società, il debito pubblico cresceva e piano piano iniziava il lungo stillicidio dell’emorragia di diritti costituzionali e garanzie sociali.

Nella sostanza quella di quest’anno è forse una delle più brutte ricorrenze repubblicane della storia contemporanea di questo paese. Le disgrazie che quotidianamente scandiscono la cronologia della società italiana parlano due lingue: quella di chi si aggrappa alla fatalità dell’evento, all’inevitabilità delle cose, all’impossibilità umana di prevedere etc. etc., e quella del lessico rozzo ed ignorante della macchina mediatica del fango perennemente a caccia di capri espiatori, diversivi e distrazioni di vario tipo.

In mezzo c’è un paese che non si merita in alcuna maniera l’attuale classe dirigente e politica. Un popolo che ha bisogno di qualcosa di più di uno stato d’emergenza continuo, passerella della tivù del dolore e consigli di … salire ai piani alti.

C’è un paese che piange lacrime amare e si sporca di fango, accetta lavori sottopagati e pericolosi, si fa insultare, a testa china, ogni volta che qualcuno, velinaro di regime o utile idiota, blatera sulla povertà dando la colpa ai poveri con la stessa arroganza e saccenza con cui uno stregone del terzo millennio può dare la colpa della malattia al malato stesso.

Insomma, alla fine basta trovare la colpa da giudicare ed un colpevole da condannare. Le patrie galere ne sono piene. Stracolme. Il vecchio continente stesso registra il numero più alto di detenuti di quest’ultimo ventennio: quasi mezzo milione (475.038). Il Bel Paese è fra quelli con i peggiori dati.

A fronte di una disponibilità di 50.853 posti, sono attualmente incarcerate 54.609 persone, di cui il 31,3% di origine straniera. Si calcola la presenza di 93 detenuti ogni 100.000 abitanti per una capienza carceraria inadeguata dove, fatto 100 il totale dei posti disponibili, l’occupazione attuale equivale a 108.

Ciononostante fra costoro si andranno ad aggiungere i responsabili degli attuali disastri ambientali? Facile dubitarne, specie in questo paese dove per i reati dei colletti bianchi c’è una sensibilità molto particolare. Decisamente diversa da quella che si ha nei confronti dei quattro rubagalline e morti di fame che, come detto, affollano le varie case circondariali dello stivale.

A questo punto più d’uno si sarà già meravigliato dell’accostamento di tematiche sociali e penitenziarie, con quelle ambientali e territoriali. Del resto, per un paese di fango, si potevano fare altri accostamenti, magari legati agli infortuni e alle morti sul lavoro, alla disoccupazione o all’abbandono scolastico, alla povertà e all’aumento delle malattie croniche o a tanti altri numeri utili per sottolineare come questa Repubblica, fondata sul lavoro, nata dalla resistenza e di forte e sana Costituzione in realtà soffre ormai da troppo tempo, nel suo corpo sociale, e presto sarà destinata a soccombere sotto la piena di un autoritarismo altisonante che, rotti gli argini, ha annegato speranze e utopie progressiste di ogni tipo, quelle di un ambiente sicuro e di una politica al servizio dei bisogni, e dei sogni, quelle di un universalismo della cura e dell’istruzione e quelle dell’ampliamento dei diritti e delle garanzie umane.

Tutto è già da tempo sott’acqua e questo bacino artificiale, maleodorante, putrido, ogni giorno che passa, plasma ed inquina le coscienze di tutti. Ed in questo caso, quando ci si accorgerà dell’inesorabile ci sarà poco da spalare, ancor meno braccia per farlo e le pale le avranno già fuse per farne acciaio per ulteriori guerre.

E della Repubblica ne resterà solo la festa, quella che le avranno fatto, con l’eterna parata militare a distrarre dal colore uniforme del tutto. Il colore del fango che forse potrà rompersi nel momento in cui figure umane informi cercheranno di emergere, di riemergere, e potranno distinguersi nettamente quando qualcuno aprirà gli occhi, mostrandone i tanti diversi colori, quelli della memoria degli scariolanti di ogni tempo, della volontà di ogni individuo solidale, del futuro sognato sempre per combattere un presente affogato.

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