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Editoriale

Uccidere invece che assistere: gli angeli della morte.

di Giordano Cotichelli

AngeloDellaMorte

Se esiste la depressione post-partum, non è forse ipotizzabile una alterazione grave dell'umore correlata sul piano clinico a ricadute criminogene che, sia ben chiaro, non possono avere alcuna giustificazione, ma che possono riguardare il professionista della salute?

PIOMBINO. I recenti fatti di Piombino, in cui vengono rivelati ben 13 omicidi ad opera di una infermiera in un reparto di Rianimazione, destano orrore. Di recente c'è stata poi la condanna per un omicidio dell'infermiera di Lugo sospettata di molte altri morti procurate, in una struttura residenziale, ai danni di molti ricoverati. Periodicamente la sanità si tinge di nero e racconta storia criminali che vedono infermieri, medici o altri operatori sanitari protagonisti di molestie, sevizie, efferatezze, omicidi.

All'orrore si aggiungono lo sconcerto e il rifiuto di una ferita profonda che procura dolore come uomini e come professionisti, e in risposta i comportamenti oscillano dalla condanna tout court, alla ricerca forsennata di un perché, una causa, un dato che possa far capire come può accadere che un “angelo” si trasformi in un “demonio”; nella consapevolezza che i fatti che salgono agli onori delle cronache rischiano di essere la punta di un iceberg le cui dimensioni ipotetiche destano spavento e portano a chiedersi quante sono le morti non accertate e a cosa potrebbero essere legate, a quali cause: volontà, imperizia, pazzia, depressione, cattiveria, e cos’altro.

Se esiste la depressione post-partum, non è forse ipotizzabile una alterazione grave dell'umore correlata sul piano clinico a ricadute criminogene che, sia ben chiaro, non possono avere alcuna giustificazione, ma che possono riguardare il professionista della salute? E’ forse quella dell’infermiere una professione fragile? Probabilmente lo è, in parte. Di certo è ad alto rischio di burn-out, come tutte le professioni di aiuto, ma ciò non è sufficiente al corpo sociale, a quello professionale e alla dimensione individuale, per capire cosa accade quando si diventa seviziatori e assassini. Lungo il percorso formativo di chi lavora in sanità, in particolare di chi sta a stretto contatto con le persone, come nel caso degli infermieri, OSS e medici, uno degli elementi percettivi che viene sviluppato riguarda la rottura del tabù dell'inviolabilità del corpo umano, l’imposizione obbligata di una prossimità e intimità fisica attraverso pratiche, interventi, cure e prestazioni a favore di una salute da garantire.

Dal più rassicurante touch care all'uso di manovre invasive al fine di dare farmaci, diagnosticare disturbi, eliminare lesioni, il bagaglio del professionista sanitario si struttura in un universo tecnico e professionale in cui il corpo umano diventa un mondo in cui è permesso entrare, con il rischio, purtroppo, di dimenticare che quel mondo appartiene ad un individuo altro da noi. Con il rischio di imporsi su quell’individuo, o di sovrapporsi oppure, perdendo qualsiasi riferimento etico e professionale, eliminando l’individuo stesso.

Giuramenti e codici etici, leggi (l’articolo 32 della costituzione sopra a tutte) governano questo mondo. O almeno tentano di farlo. E qualche volta non bastano. Destano orrore gli infermieri o i medici angeli della morte, ma anche i seviziatori della contenzione (ricordate Francesco Mastrogiovanni?), oppure i piccoli torturatori della meschinità quotidiana. O gli ubriachi di quel senso di potenza che si può provare nel riuscire governare le umane sorti. Ciò nonostante, fermandoci a questo livello analitico individuale, si rischierebbe solo di fare del moralismo fine a se stesso, o di lasciarsi andare a toni forcaioli che vanno tanto di moda al giorno d’oggi. E’ necessario andare un po’ più a fondo della questione. Un esempio può essere fornito dal libro Asylums, scritto nel 1961 dal sociologo canadese Erving Goffman, incentrato sullo studio della realtà manicomiale da cui l'autore elabora il concetto di istituzione totale riferito a quei luoghi chiusi, separati dall'ambiente circostante, in cui esistono regole “altre” ed orari particolari. Mondi a sé come possono essere un manicomio o un carcere, un collegio o una caserma, una scuola o un ospedale. O un reparto di un ospedale.

Le istituzioni totali sono caratterizzate da una popolazione divisa in due: gli ospiti e lo staff. I secondi determinano, regolano, condizionano la vita dei primi, nel bene e nel male. In questo il rapporto fra degente e curante, paziente ed assistente, utente ed infermiere (o medico) diventa asimmetrico: il primo è in condizioni di inferiorità e dipendenza dal secondo, sia per la conoscenza del suo stato di salute, sia per la sedazione dello stato di ansia che la malattia ingenera in lui, sia per le prestazioni e le cure di cui è oggetto/soggetto. Durante un corso monografico agli studenti di infermieristica ho sottolineato una volta questa condizione, con la seguente affermazione: “Bisogna ricordarsi che quelli che stanno «sotto», sono persone. Lo stesso però non vale sempre per quelli che stanno «sopra». Al di là della coloritura, il senso della frase riporta al nostro essere strumento di cura oppure no. Al fatto di non essere lasciati soli di fronte alla responsabilità della salute e della vita di un'altra persona. Non essere lasciati soli di fronte ai nostri incubi per non trasformarli in un orrore senza fine dell’altro.

Chi abusa della fiducia e della salute di coloro che glie l’hanno affidate per stare meglio, non ha giustificazioni quando viene meno al suo impegno, quando procura dolore, quando procura la morte volontariamente. Dell’infermiera di Piombino sicuramente si scriverà molto: del suo stato di servizio, della sua condizione psicologica e dell’ambiente lavorativo. Si scriverà molto, nel bene e nel male. E’ da augurarsi che al di là del piano giudiziario ed umano, si possa restare lucidi per costruire saperi e percezioni, strumenti e organizzazioni che riducano il rischio di restare in balia del volere arbitrario di “uno vestito di bianco”, e di avere una via di fuga di fronte ai mostri che iniziano a nascere dentro, al burn-out, di riuscire a trovare sostegno e soccorso, vere e proprie vie di fuga dall’orrore, come paziente e come professionista. Restare umani non è facile all’interno dell’istituzione totale, ed è necessario romperne la gerarchia che a volte fa perdere la ragione, a volte stritola i sentimenti. A volte cancella le vite.

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