Ritengo che l’articolo rappresenti un pezzo di storia interessante. Alle scuole superiori studiai della questione del mezzogiorno, ora, a distanza di molti anni si parla, ancora del mezzogiorno e dei suoi problemi.
Oggi, come ieri, c'è fra il Nord e il Sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione e per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale. L’articolo che allego mi ha stupita per i contenuti, che sono attualissimi, come fosse scritto ieri anziché sessantacinque anni fa. Sono basita!
L’Età eroica del sindacalismo si è chiusa con la fine del socialismo romantico. Oggi il sindacalismo sta diventando una grossolana macchina di guerra civile che utilizzano i partiti totalitari. Esso non ha più un contenuto e un significato proprio.
Di Arrigo Cajumi
Trovo, rileggendo L’Argent dello schietto, probo, e così classicamente pittoresco Charles Pèguy, queste tre righe: “non avevamo ancora inventato quell’ammirevole meccanismo ch’è lo sciopero moderno a getto continuo in quale fa sempre aumentare i salari di un terzo, il costo della vita di una buona metà, e la miseria della differenza”. Sbircio a poche pagine di distanza un’altra frase che mi tenta e lusinga: “Jaurès, l’uomo che rappresenta in Francia la politica imperiale germanica…” (ma non tanto in fretta, da evitare una sostituzione mentale: “Togliatti, l’uomo che rappresenta in Italia la politica imperiale russa”; 1913, come tutto si ripete!) e comincio a riflettere su ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi: il prevalere dell’egoismo individuale e sociale sui vecchi miti che molti credono ancor vivi e fecondi.
Cos’era lo sciopero generale per Georges Sorel? L’apocalissi, la rivoluzione, la chiave magica di un mondo nuovo. E Vilfredo Pareto (…) va correntemente dei capi sindacali come nuovi baroni e feudatari. Sarà che la guerra, le sue privazioni, ci ha abituati e corazzati contro i disagi: nessuno, salvo i lettori di Candido, sbigottisce davanti agli scioperi generali. Anzitutto, non riescono ad effettuarsi che in parte; in secondo luogo, ci trovan pronti e vaccinati. Il babau di Sorel non riuscì a impedire né la guerra del 1914 né quella del 1939; non si tentò neppure scatenarlo. Sta diventando uno spaventapasseri. Nell’era della bomba atomica infatti incrociar le braccia e fermare i treni, diventa una farsa. Quando qualche centinaio di pretoriani fedeli custodirà i depositi e i campi di aviazione, le moltitudini avranno un bell’opporsi e scioperare: al primo apparecchio in moto, scapperanno come le lepri.
Nei paesi a regime totalitario, i sindacati hanno perduto lingua, unghie e denti, sono i docili collaboratori del partito unico, gli ausiliari della polizia politica, un pungolo e un narcotico suppletivo. Ogni tanto, schiamazzano a comando, e poi incolonnano i gregari, danno loro in mano i cartelli da portare, e controllano e regolano le “spontanee” acclamazioni. Quando occorre, farneticano di “socializzazione” ammaestrata, e poi tutto resta sulla carta, giacché si trattava di far paura ai renitenti borghesi, o di cercar di metter un po’ di cantaride nelle floscie e scorate masse.
Negli altri, ad opera degli agenti della “reazione”, un’accanita maldicenza, bene orchestrata, sulla comoda vita, le origini spurie, il modesto cerebro dei caporioni, si spande come macchia d’olio. Che i gros bonnets vadano in automobile quando il tesserato va a piedi o viaggia in vagone bestiame, è idea più nociva alla diffusione del sindacalismo, di quanto non sia tutta la Rerum novarum. A compiere la disgregazione, dopo l’invidia, giunge la politica, la quale sovente trascura le esigenze finanziarie del tesseramento, per seguire la cabala delle ideologie, le raffinatezze strategiche, le grandi manovre partigiane. Risultato, il lavoratore si tocca in tasca, fa la somma delle perdite, la raffronta alle cifre promesse o sperate, e diventa abulico, o ribelle. La solidarietà di classe, in un paese ai cui cittadini traversie ventennali hanno insegnato la grande massima che “ciascuno pensa a sé” e ha per sola bandiera gl’interessi della propria persona e famiglia, si sfalda rapidissimamente. Esempio recentissimo: i bancari.
Né vale la molteciplità dei sindacati, a rinforzar l’emulazione, a dare spirito agl’iscritti, ad aumentarne il numero. Anzi, più correnti sorgono, meglio si combattono e si diffamano fra loro; ed il lavoratore valentieri le lascia tirarsi pei capelli, ed evita il tesseramento. Se non ci fosse qualche nucleo di attivisti pronto a usar mezzi persuasivi, i votanti nelle elezioni sindacali, già percentualmente scarsi, sarebbero quattro gatti. Anche perché quando l’atmosfera s’intorbida, la natural prudenza italica consiglia di non compromettersi, e di cercar intese particolari, accomodamenti personali, e via dicendo. Le Camere del Lavoro si avviano ad essere uno dei tanti templi i cui fedeli diminuiranno di numero e di qualità.
L’età eroica del sindacalismo è dunque finita, con l’era in agonia del socialismo romantico. Oggi il sindacalismo sta diventando una rudimentale macchina di guerra civile da utilizzar dai partiti totalitari; non ha più un contenuto e un significato proprio. Giacchè il sindacalismo “puro”, che consiste cioè nelllo studiare il sistema per ottenere le migliori condizioni di salario e di vita per le classi lavoratrici, si è urtato (…) l’economia moderna, e la crescente statalizzazione dei mezzi di produzione. Esso non ha senso nelle aziende nazionalizzate, e poiché quelle private subiscono i riflessi delle prime, oltrechè come un tempo avveniva, del mercato, l’antico duello fra salariati organizzati e gl’imprenditori solitari, si trasforma in una confusa mischia, decisa quasi sempre da forze estranee ai combattenti.
Per non rimanere travolto nell’ingranaggio, il sindacalismo avrebbe dovuto impostar la sua battaglia con un vivacissimo senso delle realtà economiche, anziché su velleità politico-dottrinarie. Ma, anche nei casi tipo laborismo, nei quali esso ha agito con maggior preparazione, ha ricercato una soluzione demagogica piuttosto che una soluzione produttivistica, è sboccato nell’economia guidata dai burocrati, cioè dagl’incapaci, è annegato fra le carte, ha galoppato verso il deficit fatale della gestione. Si è scavato la fossa da sé, inconsciamente.
Con questo non vogliamo dire sia ancor morto, e quale “barone” sindacale intelligente, o geniale feudatario, potrà avere dei successi parziali e personali. Ma il blocco, l’unità sindacale, la fraternità di classe, sono adnati a Patrasso, con tante altre cose travolte dall’elaborazione di un nuovo mondo, che può magari essere un’involuzione verso l’antico. Certo, dai clamori delle inventive di Proudhon, alle eloquenti e tendenziose tesi marxistiche, alla calda retorica del socialismo novecentesco, subentra una squallida processione di formule variabili la ridda di mediocri organizzatori che non provengono, molto sovente, dal mondo del lavoro.
Perché una delle cose ha condotto il sindacalismo alla crisi attuale, è il fatto che i meneurs non sono per lo più ex operai, ex-impiegati (..)
Chi ha conosciuto personalmente Buozzi e la vecchia guardia, si trova in un altro mondo, giacché gli manca un concreto terreno di discussione, una mentalità giuridica, un’esperienza di vita da confrontare. Cozza con catechismo (pardon, il manuale) dell’attivista sindacale recitato senza posa, come una giaculatoria. E un’altra causa della decadenza del sindacalismo non è stato lo spettacolo della cecità politica e della ottusità morale di tanti organizzatori di professione e teorici innamorati delle loro tesi, i quali pur di venderle trionfare hanno accettato e oggi per accetterebbero “rivoluzioni nazionali” a tipo autarichico-corporativo, come non ricordare i casi di A.O. Olivetti, e di Rossoni in Italia, di Henri De Man in Francia, dei soreliani e degli uomini dell’Action francaise divenuti seguaci del regime di pètain? Negli spiriti più probi, come N. Massimo Fovel, Nello Quilici, almeno un dubbio sorse sul proseguire la via del socialismo, o compiere, per arrivare allo scopo, il detour fascista. Il contatto fra chi pensa ed agisce, e il ribollire delle masse sotto l’influenza dei demagoghi, è raro e difficile.
Qualcuno mi faceva osservare, a proposito di uno studietto su Giolitti, che fra la piazza e lo statista era in due occasioni: 1915, 1922, mancata la possibilità di un dialogo, per cui la folla aveva travolto, per prima e dopo la guerra, la politica giolittiana. Senonché, a meno che la lontananza ci illuda, la folla dei tempi di Paolino Valera aveva una dose di umanità che è andata diminuendo con la diseducazione fascista. C’era più abbondanza di personalità originali, di quel che il sindacalismo post 1945 ci abbia offerto non solo in Italia, ma in Francia e altrove. La cravatta svolazzante del capitan Giulietti, superstite di due guerre, una rivoluzione, una sconfitta, è il simbolo di un mondo scomparso, ed egli ha dovuto accorgersene a sue spese. La stessa decadenza che si è verificata nel personale politico borghese, e nelle classi cosiddette dirigenti, si è manifesta nello stato maggiore sindacale. I rapporti tra due forze antagoniste sono divenuti più elementari, duri, pericolosi. Non è più un mito quasi spontaneo che muove le folle, ma un fanatismo cieco, suscitato e diretto da pochi specialisti; il vecchio leone popolare, che un tempo sbranava anche i prpri custodi e ausiliari, adesso se ne va quieto e ammaestrato dove lo menano. Attende che la radio (straniera), dia le istruzioni di cosa pensare e come agire; fa come quel tale di cui narra Chamfort che aveva una gobba davanti e una dietro, e interrogato da un farceur sul contenuto delle due protuberanze, rispose: “Nella gobba anteriore, racchiudo gli ordini, nell’altra, i contrordini”.
Il mio vecchio Proudhon, si rivolterebbe nella tomba, a sentire questi discorsi. Pèguy, no, giacché egli era un clerc e non un ex-operaio tipografo, come il grande agitatore quarantottesco. E Pèguy sapeva che la pagina bianca, l’inchiostro, qualche capriccio e paradosso, degli sfoghi, alcune citazioni, formano gl’ingredienti del più squisito piacere, quello di scandalizzare dicendo, con assoluto disinteresse, delle piccanti amare verità.
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