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Editoriale

Napoli, settembre 1943

di Giordano Cotichelli

Esterno giorno. La scena si presenta decisamente caotica, in un andirivieni continuo. Il cortile è ingombro di cose e di persone: qualche rete di letto sul lato destro, un paio di autovetture ferme dalla parte opposta e bloccate da un’ambulanza messa di traverso. Un carro funebre entra a passo d’uomo quasi fiancheggiando le file di uomini e donne che attraversano il piazzale. Il carro è in realtà un’ambulanza improvvisata che trasporta l’ennesimo carico di feriti in arrivo.

Buon anniversario delle Quattro giornate di Napoli

le quattro giornate di napoli

Gennarino Capuozzo (qui interpretato da Domenico Formato) lancia una bomba a mano contro i carri tedeschi nel film "Le quattro giornate di Napoli"

Non c’è più posto da nessuna parte. L’interno dell’ospedale è saturo da tempo: le corsie, i corridoi, persino le scale e i chiostri che collegano reperti e padiglioni, sono ingombri di persone in attesa di qualcuno che li soccorra.

Portantini e medici, suore ed infermieri, tutti vanno e vengono cercando di rispondere il più possibile al continuo richiamo di assistenza e cura che, ormai, si leva come un unico e gracchiante rumore di fondo.

Entra un nugolo di ragazzini che spinge un carretto su cui è disteso un uomo ferito. Sono gli ospiti dell’Istituto minorile dove, fino a qualche giorno fa, erano rifugiati. L’uomo sul carretto è il loro direttore che, fino all’ultimo, ha cercato di trattenere quel rimasuglio di disperata voglia ribelle che è scappata per le strade della città, in cerca di avventura, libertà, ed anche di un po’ di giustizia e, sicuramente, di qualcosa di buono da mettere sotto i denti.

È un insieme commovente di uomini non ancora uomini che però vanno a giocare con gli strumenti di morte degli adulti: qualcuno ha una pistola, uno – Aiello - ha addirittura un mitra – molti indossano un elmetto più per arruolarsi d’ufficio in quella rivoluzione improvvisata, più che per riparare il capo.

In fuga dall’istituto, mentre sciamavano per le vie della città, qualcuno ha gridato: Facciamogli vedere chi siamo!, e di rimando una voce gli ha fatto eco - E chi siamo noi?, Siamo tutti figli ‘ndrocchie!. Al povero direttore non è restato quindi che aggregarsi a quella scalmanata truppa per cercare di proteggerla il più possibile non riuscendo, però, a difendere sé stesso.

Dai piani che si affacciano sul cortile qualcuno getta giù un paio di materassi

Ricoveri di fortuna per i disgraziati che stanno in basso; per i feriti, che arrivano in continuazione. Anche per quelli del nemico, perché: Nuje a' uerra nun a' facimme p’accirere a' gente!, sottolinea un carrettiere che sta cercando un dottore per curare un tedesco ferito.

Nel caos del cortile dell’ospedale una donna cerca suo figlio piccolo – Cazzillo – che se n’è già andato con il gruppo dei minori armati. In testa, anche lui, indossa un elmetto tedesco che lo rende ancor più fragile e in balia della tragicità della storia.

La scena successiva vede l’immagine di una via deserta e apocalittica della città. Sembra quasi un quadro di un qualche neo-impressionista francese, anche se la pellicola è in bianco e nero. Il quadro è quello di Maximilien Luce, custodito al Musée d’Orsay di Parigi, dal titolo: “Une rue de Paris en mai 1871”. Un’altra immagine di un’altra guerra, ma che ha per vittime sempre gli stessi figli dell’umanità violata.

Quelle descritte sono alcune delle scene del film di Nanni Loy: “Le quattro giornate di Napoli”, anno di produzione 1962. Quasi un docu-film ante litteram che parla della sollevazione popolare della città tra il 27 e il 30 settembre del 1943, che portò alla cacciata dei nazisti e all’arrivo degli alleati il 1° ottobre.

Napoli in più di tre anni di guerra, aveva subito oltre cento bombardamenti pagando con 25.000 morti il suo tributo di sangue alla guerra d’aggressione dell’Italia fascista. Durante le quattro giornate molti furono ancora i caduti e, come spesso accade in situazioni analoghe, non è mai facile stabilire il numero preciso delle vittime.

La cifra oscilla fra circa trecento persone e quasi un migliaio, in un rapporto rispetto alle perdite nazifasciste di tre a uno, o al peggio, di dieci a uno. Un martirio che portò la città, prima fra le grandi capitali del Paese – e d’Europa -, a liberarsi dalla tirannia criminale dei nazi-fascisti. Per questo le venne riconosciuta la medaglia d’oro al valor militare.

La descrizione del cortile dell’ospedale, operata dal regista, non è poi fatta a caso, in quanto sembra che fra i primi focolai della rivolta, scoppiati un po’ ovunque in città, ci fosse anche quello che vide la partecipazione di diversi ricoverati dell’Ospedale degli Incurabili1 che si armarono, con materiale debitamente nascosto nei giorni precedenti, grazie alla collaborazione dei sanitari.

Una targa, all’entrata del nosocomio, ricorda oggi, al pari del locale museo delle arti sanitarie2, la solidarietà e la lotta che si svilupparono anche fra i sanitari. Essa recita3:

Negli anni di terrore e di strage / fiammeggiante di carità fra le fiamme della distruzione / baluardo incrollabile di passione civica e di ardimenti / questo ospedale / martoriato e colmo di martoriati / tenne fede eroicamente alla sua storia e al suo voto / celò le vittime ai persecutori / deterse il sangue innocente / scagliò la sua gente pacifica allo estremo cimento / nelle quattro giornate / Le autorità, il personale, il popolo / gliene danno atto riconoscenti / XXX settembre 1947.

Le brevi cronache narrano infatti che una ventina di ricoverati, in buona parte militanti politici con alle spalle anni di galera e confino, decisero di passare all’azione con il materiale bellico precedentemente nascosto: 3 mitragliatrici, qualche decina di fucili e qualche centinaio di bombe a mano4.

Accadde all’Ospedale degli Incurabili, come in altri nosocomi, e in molte parti della città di Partenope, dove dai bassi dei quartieri Spagnoli alle vie del porto, dalle scalinate che scendono verso il basso incrociando le vie che si inerpicano fino al Castello di Sant’Elmo, tutta un’umanità scese in lotta per difendersi affermando un’identità solidale e sociale che da sempre aveva mal accettato le smargiassate del regime e la sua criminale violenza.

Qualcuno ha ricordato che persino durante la visita di Hitler a Napoli, mentre il corteo delle autorità attraversava la città, sembra che dalla folla, in risposta al Fuhrer tedesco che si era alzato in piedi a fare il saluto nazista, qualcuno abbia gridato: Sta verenn’ si for’ chiove.

La pellicola di Nanni Loy non è la sola che ricorda il sacrificio della città. Anche nel film “Tutti a casa” di Luigi Comencini, del 1960, con Alberto Sordi, le scene finali, e drammatiche, vengono dedicate alla sollevazione napoletana.

Nei titoli di coda delle “Quattro giornate”, infine, viene ricordata la figura reale che ha ispirato il personaggio di Cazzillo, prima citato: Gennaro Capuozzo, dodicenne caduto in combattimento e per questo insignito di una medaglia d’oro. A questo ricordo si può aggiungere, per sottolineare il protagonismo dei sanitari in quei giorni, anche il nome di Panico Raffaele, infermiere dell’ospedale Leonardo Bianchi, fucilato dai nazisti il 29 settembre5.

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