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editoriale

La Pasqua ai confini dell’Impero

di Giordano Cotichelli

Oggi finalmente è una bella giornata e un po’ di tepore non guasta. Il sole illumina tutto il campo che, da qui, sembra quasi bello. La vita è quella di sempre e, come sempre, a quest’ora, piano piano, quasi in maniera impercettibile, le file di persone si costituiscono e definiscono davanti ai vari posti di distribuzione. Riesco quasi a vederle tutte da dove mi trovo. Quella sul limite del crinale costruisce una linea retta di ombre in movimento, mentre più in basso un’altra si spezza e si ricostruisce più volte negli spazi lasciati liberi fra un tendone e l’altro.

Storie e stati d’animo di molti dannati della terra

Torno a guardare Amin alle prese con le “sue” colombe. Ce ne hanno mandate tantissime dall’Italia. Un’azienda ha preso a cuore la condizione dei profughi

Donne, uomini, bambini, anziani, facce, schiene, e corpi appaiono e scompaiono. Ora sono dietro la tenda del magazzino 4, ora più avanti, fra la baracca della reception (così la chiamano) e l’infermeria. La fila scorre, e la vita pure. Ce ne sono due piazzate a punti più esterni del campo. Partono da lì, l’una diametralmente opposta all’altra.

Attraversano i diversi rilievi del terreno, sembrano quasi torrenti umani che scendono verso il basso, verso lo spiazzo del parcheggio dei furgoni degli aiuti. La testa di ognuna dista dall’altra quasi un centinaio di metri. Se ci trovassimo in un altro luogo, si avrebbe di fronte un’esplosione di colori e di umanità degna di una festa di paese.

Qui però predomina il grigio della tendopoli, misto al fango scuro delle piogge o a quello seccato dalle belle giornate di sole, come questa. La monocromia della disperazione però non riesce a dominare la scena. Il rosso di qualche maglietta, l’ocra di una camicia, il nero brillante, nonostante tutto, di un velo o di una giacca rompono il paesaggio. Il verde e l’azzurro di decine di occhi vivi e vividi allargano gli squarci di colore che vengono mantenuti dall’arcobaleno del coraggio che ognuna di queste persone cerca di tenere nel proprio cuore.

Incrocio lo sguardo di Amin che alza dritto il braccio verso di me. In mano tiene un pezzo di dolce. Lo scuote leggermente e con gli occhi sembra chiedermi di nuovo cosa è. Lentamente, con la bocca mimo le sillabe del nome: Co-lom-ba. Lui risponde ripetendole, a suo modo: Ko-lo-mbh-ah. Si ferma. Soppesa il pezzo di dolce. Lo guarda con attenzione come a rilevare qualche differenza e poi si volta di nuova verso di me, riapre la bocca sillabando in maniera più vistosa, ed ancor più silenziosa: Pa-na-ttho-né.

Scuoto la testa e gli sorrido. Sa già la mia risposta: Sì, sì, ma quello è un dolce di Natale… - mi arrendo di fronte all’inevitabile - … anche se somiglia alla colomba. Cambiano le forme e la festa, ma l’industria alimentare è la stessa. Amin alza le spalle e continua la distribuzione.

Si volta verso un ragazzo che sta aspettando in coda. Gli allunga il dolce, abbinato alla bottiglietta d’acqua e alla scatola con il cibo per il pranzo. L’altro assomiglia più ad una specie di tronco d’albero rinsecchito con sulla sommità un’esplosione di capelli ed un paio di occhi di brace che gridano nel silenzio. Allunga le mani. Afferra il tutto. Sembra quasi esitare, ma in realtà è Amin che sta trattenendo il pacco.

E tu da dove vieni? Non sei di qua. Non sei siriano e nemmanco turco. L’altro borbotta qualche monosillabo. Cerca di tirar via la bottiglietta. Non sa che fare. È spaventato. Amin, ha importanza da dove arriva?, gli grido. Si volta di nuovo verso di me. No, no però… ecco … questa roba è per noi del terremoto, insomma. Non aggiunge altro. Guarda verso il tronco d’albero. Guarda in basso e lascia la presa. Il ragazzo prende il cibo e si allontana a grandi passi timoroso di ripensamenti o tradimenti.

Oggi dovrebbe scorrere bene la giornata. Di gente non ne è arrivata moltissima e cibo e coperte non mancano. Oggi, nonostante tutto è festa. Almeno per i cristiani. È Pasqua. La terra ha smesso di tremare da giorni e piano piano il fiume della normalità sta sostituendo la piena della tragedia che aveva spazzato via vite e speranze aprendo, nei cuori, crepe più ampie, più lunghe e più profonde di quella che hanno ridisegnato il profilo dell’intera vallata dove siamo ora.

Vera mi ha scritto che non tornerà all’università. Ha deciso che resterà in ospedale a fare volontariato per poter essere d’aiuto ai tanti feriti e morenti del suo paese sconvolto dalla guerra. Forse è un modo anche per stare vicino a suo fratello. O quanto meno crederlo. Lui si trova da un’altra parte.

È in prima linea e proprio questa mattina mi ha messaggiato scrivendomi: C’è una vista stupenda in questa parte del fronte. Siamo saliti in alto, lungo strade ricche di tornanti. La dura roccia conserva ai nostri occhi il biancore delle nevi che rimane fino alle porte di giugno. Una lunga teoria di alti e magri pini si staglia sull’orizzonte delle cime innevate. Guardiani fidati al nostro passaggio.

Vera non vuole perdere anche Edoardo dopo aver perduto Rolando, Vittorio e Goffredo. Al solo pensiero impazzisce. L’ultima volta che ci siamo visti, soffriva molto. Amareggiata nei confronti di un destino terribile. Arrabbiata e folle verso i cari perduti: Non c’è stato nessun aldilà. Nessuna mattina di Pasqua, nessun nuovo incontro. Ho camminato da sola nell’oscurità, nel mutismo, nel silenzio che nessuna voce amata sarebbe riuscita a penetrare. Nessuna affettuosa speranza sarebbe stata in grado di violare.

Torno a guardare Amin alle prese con le “sue” colombe. Ce ne hanno mandate tantissime dall’Italia. Un’azienda ha preso a cuore la condizione dei profughi e ha riservato una partita dei suoi prodotti anche per noi. Buona cosa, anche se ci vorrebbe molto di più.

Penso alle centinaia di uova di Pasqua che ci arrivarono tre anni fa. Sì, giusto tre anni fa, in pieno lockdown. In ospedale ci riempirono di dolciumi per farci sentire meno soli. Per alleviarci il peso e, magari, alleviare anche la coscienza di quelli che dicevano che “Noi portavamo il covid dentro il condominio”, che era tutta un’invenzione, un complotto e che bisognava tenere aperto tutto.

Chiacchiere, un fiume di chiacchiere che non riuscì però a sommergerci. Le tute bianche le abbiamo lasciate da un po’. Sembra che tutto sia finito. Sembrano passati mille anni da allora e, per molti, tante cose si sono rotte lungo le rotte di sempre che hanno continuato a percorrere, su sentieri di macerie, promesse mancate, speranze cancellate, e cambiamenti in meglio millantati. Io però non ce l’ho fatta.

Ho visto gli imboscati del Covid tornare nelle stanze del potere, intasandole. Sono tornati a gridare ordini, negando la loro vigliaccheria ed insultando il sacrificio di tutti. Io non ho voluto sopportarli più e, dopo l’ennesima strage di naufraghi ritrovati sulle coste di un mondo egoista e bugiardo, o morti dal freddo in mezzo alle foreste di abeti gelati, non ho retto più. E di campo in campo mi sono ritrovato qui ai confini dell’impero.

Non tutti possono andarsene. Non tutti hanno la fortuna di andarsene. Amin presto o tardi lascerà il campo. Tornerà a casa. Anche Vera, mi auguro. Altri non potranno farlo. Io, credo che per un po’ mi fermerò qui, perché dopo il Covid: Non ci hanno lasciato cambiare niente... e allora gli ho detto... avete fatto come volevate ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice. Sì, per un po’ rimango qui, poi forse torno. Tutti tornano. Sempre. E qualche volta si riesce a cambiare un po’ le cose, prima che le cose cambino noi in peggio definitivamente.

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