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Editoriale

Fnopi: un grido spezzato

di Giordano Cotichelli

L’ultima lettera di protesta della Fnopi (datata 17 gennaio) riporta l’intestazione dell’ordine, ma è firmata “gli infermieri italiani”. Una scelta comunicativa che vuole darsi la forza di una maggiore incisività, ma che rischia di apparire più debole di quanto non sia la professione stessa, in quanto la Fnopi è l’ordine degli infermieri italiani, e ogni ulteriore declinazione, seppur a scopi “mediatici”, rischia di fallire. Ancor più se il contenuto non aggiunge nulla di nuovo alle molte cose già dette e rivendicate in passato, le quali dovrebbero acquistare forza contrattuale ulteriore – si passi il linguaggio sindacale – grazie dato il momento emergenziale, la pandemia imperante, il sacrificio di professionisti che da quasi due anni sopportano un carico non più tollerabile. Un contenuto che, sul piano rivendicativo, parla di aumenti contrattuali, di meritocrazia, di maggior peso professionale da riconoscere, in una prospettiva che però sembra non cogliere alcun riferimento del contesto sociale in cui si vive; quello attuale e quello in cui si è lavorato negli ultimi decenni. In merito, proviamo a tracciarne un quadro sociale ed economico generale di riferimento.

Infermieri italiani: lavoratori di linea nella fabbrica della salute

Sono almeno trent’anni che la sanità pubblica è sotto attacco in Italia, e con essa tutto il sistema di welfare: istruzione, trasporti, previdenza, salari, occupazione, etc. Non c’è stato governo che non abbia avallato scelte precise di una progressiva destrutturazione dell’assistenza e della cura della salute. Trent’anni fa un paziente cronico veniva curato nelle corsie ospedaliere del sistema territoriale delle USL, ed aveva, come professionisti dell’assistenza, diversi infermieri assunti a tempo indeterminato. Oggi, quelle stesse patologie croniche sono curate, con minor impiego di risorse, in strutture private, con l’assistenza demandata per lo più a personale di supporto, dove l’infermiere rischia di figurare come professionista residuale di riferimento per tutto ciò che non può essere demandato a figure pagate meno. Infermieri che, in molti casi, sono stati assunti con contratti precari, o che sono stati costretti a dotarsi di partita IVA o che lavorano nel circuito delle cooperative. È la gestione iperliberista del mercato del lavoro privato, diversa dal clientelismo dell’amministrazione pubblica, ma non certamente migliore.

Il punto per gli infermieri però è un altro. Non tanto la differenza fra pubblico e privato, quanto essere corpo professionale e corpo sociale. Nel primo caso gli infermieri italiani, nella loro totalità, non sono, non si sentono e non sono considerati allo stesso tempo un corpo professionale determinato. O almeno non lo sono per la loro interezza. Una piccola parte, quella più legata a posizioni apicali, con caratteristiche da quadro intermedio, vi rientra, ma nella totalità gli infermieri italiani sono lavoratori di linea, chain worker di una produzione fordista (in fase di smantellamento, peggiorativo) qual è la fabbrica della salute ospedale-centrica su cui si è strutturato il welfare sanitario in Italia e nel mondo in generale. Per tale motivo è inutile appellarsi al volontarismo e al sacrificio dei professionisti, dato che i 456.000 infermieri non appaiono certo come un corpo omogeneo, anche sul piano deontologico e professionale, almeno stando agli episodi negativi che hanno caratterizzato questa pandemia, fra casi di truffa in tema di green pass e adesione alle teorie no-vax. Una piccola parte degli infermieri sicuramente vive maggiormente il bisogno di rappresentanza professionale, e soffre di una collocazione gerarchica limitata, all’interno delle amministrazioni pubbliche, augurandosi di poter avere un peso pari a quello per i dirigenti a livello privato. A tale proposito, in qualche caso viene evocata una irrinunciabile visione meritocratica che, nella realtà, non ha nessuna possibilità di realizzazione in una società in cui la fidelizzazione e il clientelismo hanno sempre determinato ruoli e posizioni.

Gli infermieri non sono né corpo professionale né corpo sociale

Alla fine, una vastità di lavoratori non si considera e non è – nei fatti - corpo professionale, e si sente esclusa, frustrata e incattivita ulteriormente da due anni di pandemia. Vede le condizioni di lavoro peggiorare progressivamente, la pensione allontanarsi, i problemi di salute aumentare, e non si illude più su come “l’essere professionista” possa essere motore di un miglioramento che, nei fatti, non si è mai palesato in alcun modo. Dunque, infermieri come corpo professionale mancato, i quali però, allo stesso tempo, non sono corpo sociale. Non lo sono mai stati. Negli anni ’50 i contadini, nel nostro paese, sono stati corpo sociale con le lotte per la ridistribuzione delle terre. Negli anni ’60 poi lo sono stati gli operai dell’industria, i metalmeccanici, seguiti, negli anni ’70, dagli “ospedalieri”, dicitura che abbracciava tutto il mondo della sanità, non solo gli infermieri. Queste categorie, come anche il mondo dell’artigianato e del piccolo commercio in certi casi, sono state corpo sociale, dato che hanno abbinato alle loro rivendicazioni – salariali, occupazionali, contrattuali, etc. – la richiesta di un miglioramento generalizzato della società. I metalmeccanici dell’autunno caldo del ’69, sono scesi in piazza per una scuola pubblica, migliore, gratuita. Le operaie lottavano per la parità salariale e per la legge sul divorzio. I contadini liberando le terre baronali affermavano la fine di un feudalesimo economico e sociale durato troppo a lungo.

E gli infermieri? Come detto, negli ultimi trent’anni, si è assistito ad un peggioramento della sanità pubblica, del welfare italiano, delle condizioni di lavoro e di reddito, della copertura sanitaria e assistenziale, specie verso i più deboli. Una discesa verso gli inferi in cui non si è manifestato alcun tipo di protagonismo infermieristico, se non di tipo episodico. Da oltre vent’anni la professione ha i suoi dirigenti e i suoi docenti, i quali però non sono riusciti a dimostrare di rappresentare un plus valore oltre la dimensione individuale, sia per la professione sia per la collettività. Vero è che in molti casi la responsabilità è sistemica. Molti colleghi si sono trovati a dover fare i conti con una riduzione di personale, di servizi e di risorse cui non avevano alcuna possibilità di opporsi se non quella, nella migliore delle ipotesi, di rendere le condizioni lavorative, le meno brutte possibili.

Essere infermieri significa rivendicare sicurezze non solo per sé, ma per tutti

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