La campagna elettorale estiva ha spazzato via i classici tormentoni stagionali che da anni imperversano sui media. Quest’anno niente ammazzamenti misteriosi, mostri di provincia, fughe romantiche o stragi preannunciate. Oddio qualcosina rimane, ma è poca cosa nei confronti del cianciare della politica dei politicanti in cerca di voti. La stagione della mietitura elettorale è più lunga di quella dell’agricoltura, e molto, molto meno redditizia. E il titolo di apertura di questa brutta commedia italiana potrebbe essere: “Una poltrona per due … anzi per tre, facciamo quattro!”. Taglio dei parlamentari e povertà di idee, fanno il resto. Benvenuti nell’Italia post-pandemia e pre-governochegovernabbenealtrocheloro! Come definire questo Bel paese? O meglio i suoi piccoli, piccoli abitanti? Beh! Sembra ci abbia pensato l’amato attore Christian De Sica che, nei giorni scorsi, ha sollevato critiche nei confronti dei social e dei loro fruitori, giudicati, in larga parte, figli di un mondo in cui la cafonaggine domini incontrastata.
Italia cafona e arrogante, pezzente e prepotente
In genere non amo i figli d’arte, quelli che scelgono il mestiere del paparino, specie in ambito sanitario, ma nel caso degli attori mi sono ricreduto più volte e devo dire che, i figli dei colonnelli della commedia all’italiana, in larga parte, sono riusciti a tenere testa a quei mostri da palcoscenico che erano i loro genitori. E Christian De Sica rientra fra questi, con la sua capacità plastica di tenere la scena, di assumere ruoli diversi, sempre portatore di una verve autoironica inimitabile. I cinepanettoni che lo hanno reso famoso – riempiendogli anche le tasche – al di là di ogni valutazione, hanno sempre rappresentato un j’accuse beffardo e grottesco verso l’Italia cafona e arrogante, pezzente e prepotente, volgare e profondamente meschina d’animo e di mente. Prima di piacere come film di denuncia sociale, i cinepanettoni hanno rappresentato uno specchio dei difetti (tanti) e delle virtù (avercele) nazionali, in cui ritrovarsi in maniera sguaiata, quasi rivendicando più l’idiozia genetica che non l’essere dei guappi falliti.
In tutto questo il rimbrotto di De Sica arriva puntuale, ma fallisce. Cade nel vuoto e manca il bersaglio. Proprio come i suoi film che, prima ancora di fare satira e di far riflettere sui vizi molto pubblici e le quasi assenti virtù private, assolvono e alleggeriscono una coscienza da parvenu che recita: “Mal comune? Allora se po’ fa!”. Del resto De Sica è un attore, e non è né un politico (che fa politica) o un sociologo, o un sindacalista (che fa sindacalismo), e di più non si può pretendere da lui. Però, una riflessione che vada oltre lo scandalizzato per l’uso sguaiato dei social, poteva abbozzarla. Anche perché, i cafoni dei social, quelli vecchi che stanno su FB o quelli giovani che stanno su IG, o quella di tutti gli edonisti che si tictoccano per qualsiasi cosa, sono quelli che hanno decretato i successi di botteghino dei cinepanettoni e che, al di là di chi può realmente permettersi una vita da vip, altro non hanno da fare che postare, filmare, chattare, condividere ed alimentare odio e sciatteria via web.
Dai boomer alla generazione “Z”, in tutti le speranze di un futuro migliore, o anche di un presente decente, ma pure di un passato interessante, sono pressoché sfumate. Da trent’anni e più siamo stati abituati a dibattiti politici fatti a colpi insulti e urli, promesse fatte e subito dopo disattese, e a tanti, troppi colpi di spugna su reati di ogni tipo. Quelli fatti dai potenti, non quelli dei rubagalline che affollano le galere dove ogni tanto qualcuno si impicca disperato.
Io so io e voi siete delle capre! Anzi. Io (il sottoscritto) è figlio di un’Italia che quando riusciva a comprarsi il salotto – due poltrone e un divano, a prescindere da quante persone c’erano in famiglia – lasciava il cellophane dell’imballaggio per non rovinare il mobile. E quando doveva comprare un’auto usata considerava un segno di valore se qualcuno gli assicurava che: “È stata tenuta come una moglie!”. E molto altro ancora per cui, perché scandalizzarsi se postiamo su FB un paio di piatti di pasta o le foto – tutte uguali – di tramonti rosseggianti, più figli dell’inquinamento che non di madre natura? In fondo De Sica si è contenuto. Foto di vacanze e piscine varie, yacht e cime violate? Poteva andare peggio. Dal buongiornissimo caffè agli auguri di Buon Natale, Buona Pasqua, o Buon ferragosto, tutti uguali, fatti da pessime gif animate con colori melensi e falsi, in un tripudio di ipocrisia del web, che un cinepanettone a confronto sembra una puntata di Quark. Ecco appunto, la cultura di massa. Poche ore prima del disappunto pubblico di Christian De Sica, il grande divulgatore scientifico Piero Angela ci ha lasciato, e sicuramente lo ha fatto con animo lieve, anche se il suo lavoro, per certi versi molto contiguo a quello dell’attore romano, probabilmente non è riuscito a far breccia più di tanto nelle coscienze e nelle menti avvizzite di noi tutti.
Purtroppo, ma è necessario leggere la realtà per quello che è, e che ci parla di persone sicuramente cafone, ma non sceme. Instupidite, ma non stupide, miopi ma che hanno rinunciato a mettere gli occhiali per correggere e migliorare il mondo attorno. Io credo che buona parte di coloro che postano foto di dolci diabetogeni e tette rifatte abbiano rinunciato da tempo a cambiare non solo questa società, ma anche la loro vita stessa. Perché dovrebbero ripensarci. Ogni volta che si è provato a portare a casa un benché minimo diritto sociale, il prezzo da pagare è stato sempre altissimo. Chi come, il sottoscritto, si illudeva che i diritti conquistati dai propri genitori fossero per sempre, ha scoperto ben presto che niente è per sempre. In questo gli infermieri rappresentano un laboratorio sociologico pressoché perfetto.
Credevamo che la salute pubblica avrebbe visto un ampliarsi dell’offerta, di servizi e di posti letto. Che il personale sarebbe aumentato e le relazioni interne non sarebbero state basate unicamente sulla gerarchia e la stratificazione di classe. I baroni di una volta? I boriosi primari del passato? Ma no, oggi è diverso. Ci diamo del tu!
Ricordate quando qualcuno diceva: Eh mica tutti possono andare all’università? Eh allora anche l’operaio vuole il figlio dottore?
Lo dicevano anche le strofe di una canzone, ma ci siamo presto accorti che i figli d’arte rimanevano figli d’arte, nel bene e nel male. E per noi, per i nostri figli ci toccava sperare di non scendere ulteriormente la piramide sociale. L’ascensore sociale è fermo in Italia? Non è vero. Per qualcuno sale senza problemi, ma per molti i pulsanti per i piani alti, o meglio per un lavoro ed una vita migliore, sono con la chiavetta. E a noi quella chiavetta non ce l’hanno mai data e quindi, nella migliore delle ipotesi restiamo al piano, a meno che qualcuno non chiami l’ascensore da sotto e ci faccia andare ancora più giù. Ed ancora oggi, per un attimo, breve, brevissimo, quasi inesistente, ci siamo illusi che forse sarebbe andata diversamente. Smessa la tuta bianca dei reparti covid, letta e riletta mille volte la frase che diceva andrà tutto bene, abbiamo sperato che…dopo…Ed invece il welfare, la sanità pubblica, l’istruzione e tutto quello che ci permette di vivere decentemente, scivolano sempre più verso il grande contenitore del profitto di pochi. Gli oligarchi non sono solo in Russia o in Ucraina, e si preparano già a raccogliere le messi elettorali.
Cosa rimane da fare? Difficile dirlo. Siamo bravi a scrollare il video del cellulare e ad insozzare le nostre menti ed i nostri cuori con tutto il peggio che algoritmi di ogni genere possano regalarci tramite la rete. Si! siamo cafoni, e siamo senza speranza. Ma preferisco essere e stare mille volte con i cafoni del mai troppo rimpianto Ignazio Silone di Fontamara, che con un qualsiasi illuminato di questa società che pontifica al riparo dei suoi salotti. E come ben si sa, i salotti non sono né di destra né di sinistra. Sono per chi se li può permettere e si inventa le favolette e i prodotti elettorali per chi ancora deve togliere il cellophane dal suo divano a tre piazze.
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