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Costi standard in sanità: centralizzazione o devoluzione?

di Emanuele Lisanti

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ROMA. I costi standard sono una metodologia di definizione del valore economico e finanziario dei processi di cura al fine al definire l’ammontare delle risorse utili all’erogazione delle cure. Per definire l’ammontare delle risorse, però, bisogna stabilire dapprima il listino dei servizi e il valore ad essi attribuito. Per fare questo è stato creato, a livello governativo, un set di indicatori che permetta la valutazione delle regioni più virtuose. Le regioni con asset ritenuti efficienti stabiliranno a livello nazionale  l’assorbimento di risorse per processo erogato.

La valorizzazione dei processi, allora, si è trasformata in una gara a cinque tra Lombardia, Veneto, Toscana, Umbria e Marche in cui ognuno vuol dimostrare come e quanto, con i propri asset e con la sua popolazione di riferimento, si debba spendere. La gara si è svolta sulla base di 19 indicatori e le regioni sono diventate “benchmark” attraverso un indicatore finale di qualità ed efficienza, ma solo tre di esse saranno le vincitrici e dunque le più brave della classe.

 

Ripercorrendo brevemente la storia che spinge alla definizione dei costi standard, il ministro Sacconi nel settembre 2008 a un convegno del PDL afferma che “solo il passaggio dal costo storico al costo standard può favorire un riequilibrio del sistema”. Tra i presenti ci si rese subito conto che questo nuovo sistema di finanziamento c’era già: la quota capitaria. Infatti a partire dal 1992 si passa dalla spesa storica (a consuntivo) al numero di abitanti (standard) per finanziare la sanità regionale.

 

La legge 42/2009 sul federalismo fiscale introduce i costi standard all’art.2, comma 2, indicando la determinazione del costo e del fabbisogno standard quale costo e fabbisogno che, valorizzando l’efficienza e l’efficacia, costituiscono l’indicatore rispetto al quale comparare e valutare l’azione pubblica. Inoltre, il costo e il fabbisogno standard divengono i parametri per il finanziamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea).

 

Il Governo dà le linee per la determinazione dei costi standard del settore sanitario con il decreto legislativo 68 del 2011. I costi standard saranno determinati sulla base dei costi sostenuti per la sanità dalle tre regioni più virtuose, quelle cioè che hanno i bilanci in equilibrio economico e che “garantiscono l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizioni di efficienza e di appropriatezza con le risorse ordinarie” di cui dispongono. Il Governo Monti si dà da fare e, con la delibera dell’11 dicembre 2012, definisce nel dettaglio i criteri per l’individuazione delle regioni dai cui conti sanitari far discendere i costi standard.

 

Nel 2013 i firmatari della delibera: Mario Monti, presidente del Consiglio dei Ministri, e Renato Balduzzi, ministro della Salute, sono ex. La delibera non ha avuto l’assenso della Conferenza Stato-regioni. Il Fondo Sanitario Nazionale del 2013 è di 108 miliardi di euro e il metodo è la spesa storica.

 

La domanda a cui bisognerebbe dare risposta in primis è:

1. centralizzare a livello statale i servizi essenziali per assicurare il diritto alla salute e stabilire per essi tariffe uguali su tutto il territorio nazionale?  
2. devolvere alle regioni il diritto alla salute e lasciare ad esse la responsabilità di definire le tariffe, quali prestazioni offrire e a quale costo per il cittadino, lasciarle puntare sulla mobilità attiva e, dunque, lasciarle concorrere proprio come un’azienda?

 

Il costo standard nasce in ambienti industriali, in un contesto pressoché prevedibile e dunque standardizzabile. L’asimmetria informativa nell’azienda sanitaria tra il team dei sanitari e il team del management ha permesso l’affermarsi della logica dominante per cui la sanità è un servizio non standardizzabile e dunque difficilmente controllabile.

 

La partita è in corso e laddove il controllo è visto con un’ottica punitiva la squadra dei sanitari vince senza grosse difficoltà, invece, nel caso in cui il controllo di gestione riesce a legare le evidenze scientifiche alle analisi economiche si passa direttamente al terzo tempo e i risultati centrano gli obiettivi di appropriatezza, formazione degli operatori, soddisfazione dell’utenza, equilibrio del bilancio economico/finanziario della gestione.

 

Il sistema di finanziamento a prestazione è stato stabilito con i costi standard: l’analisi dei processi e i costi ad essi attribuiti di 11 strutture virtuose sparse per l’Italia hanno generato le tariffe isorisorse dei Drg. I costi dei processi analizzati hanno rappresentato il parametro di confronto su cui calcolare i punti Drg e, dunque, ogni regione ha affidato un valore a quel punto Drg tale per cui ci sono tariffe differenti tra regioni differenti. Da qui sono nate diversità incredibili che vanno oltre il ricavo della tariffa Drg e riguardano ben altri parametri di confronto ovvero i costi di acquisto dei fattori di produzione.

 

Tra gli esempi che compaiono su tutti i giornali il prezzo di un sondaggio gastrico in Campania: 6,02 euro, in Piemonte: 125,60. Una colonscopia in Campania: 82,63 euro, stesso esame in Valle d’Aosta e il prezzo sale a 175 euro e 60 centesimi. Una terapia alla luce ultravioletta costa 1,55 euro in Toscana e 42 ad Aosta. Un esame di aortografia con liquido di contrasto a un cittadino di Genova o Perugia  costa 283 euro mentre a uno di Torino ben 650. Sono le tariffe così come vengono fotografate dall’Agenzia Nazionale per i Servizi sanitari regionali (Age.Na.S)1.

 

Concludo con una provocazione: ma se il processo di aziendalizzazione delle singole strutture non è ancora completo, ha un senso parlare di costi standard? Forse chi si occupa di governo clinico avrebbe qualcosa da dire al riguardo.

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