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in pillole

Condizioni e problematiche esistenziali del mieloleso

di Giustino Ciccone

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Estratto del libro "Mielolesione e sessualità"
Giustino Ciccone, Rosario Di Sauro

NAPOLI. Quella del mieloleso è una condizione, più che una malattia in senso proprio. La scienza medica non contempla una analoga patologia, che coinvolga contemporaneamente e in modo irreversibile, definitivo ed esteso, tutte le funzioni motorie, sensoriali e viscerali. Si tratta di un evento lesivo, che comporta una sindrome, complessa ed unica nel suo campo per l’eterogeneità espressiva e per la gravissima alterazione dell’equilibrio psicofisico della persona. Viene compromessa l’intera armonica relazione che esiste tra i diversi sistemi funzionali con conseguenti ferite non solo al Sé corporeo, ma anche al Sé psichico e al Sé sociale.

Nel linguaggio comune, tuttavia, paraplegico o tetraplegico è, genericamente, una persona non più in grado di muovere gli arti, è una persona in carrozzina, è una persona con più o meno gravi difficoltà di mobilità.
L’immaginario comune coglie solo la disabilità più visibile: il non poter più camminare.
In realtà, per un para-tetraplegico ben più grave ed invalidante è la complessa e definitiva compromissione delle funzioni genito-sfinteriche, sensoriali e viscerali.

Vivere in carrozzina non è solo incontrare numerose, e spesso invalicabili barriere architettoniche o avere difficoltà di inserimento nella vita lavorativa e sociale, ma è soprattutto dover fare i conti con:

  • l’alterazione della propria identità ed unità psicofisica;
  • la compromissione dello schema e del vissuto corporeo;
  • l’angoscia per la perdita di una parte di sé, con la modificazione della percezione dello spazio, intesa come “senso di frammentazione”;
  • la trasformazione dei rapporti affettivi.

Lo schema corporeo è quello che la psicologia definisce come il “Sé corporeo”, non è il nostro corpo fisico, ma l’immagine, unica ed individuale, che ciascuno di noi ha del proprio corpo, è il quadro mentale della nostra fisicità, vale a dire il modo in cui percepiamo di esistere. Non è semplicemente il risultato delle nostre sensazioni (tattili, visive, uditive, etc.) bensì la percezione immediata di esistere come unità corporea, è coscienza di essere un “corpo vivente”, quale prodotto del legame con l’Io, con il corpo che percepisce. Esso non costituisce un dato statico ed acquisito una volta per sempre, ma è un elemento di modificazione.

I dati sensoriali provenienti dal corpo in attività infatti, sono elaborati ed inseriti nel quadro delle coordinate spazio-temporali, in stretta relazione col vissuto emotivo ed allo stesso tempo il corpo è il filtro con cui la coscienza fa emergere un mondo proprio, strutturandone il senso delle intenzionalità e delle relazioni vissute. Tutti i discorsi sul tempo e sullo spazio sono possibili proprio perché c’è un corpo che esiste, il nostro corpo rappresenta un polo di scambi con l’ambiente il cui rapporto è continuamente dato dalle attività motorie, percettive ed emotive che si manifestano nel tempo e nello spazio.

Il corpo incarna la struttura spazio-temporale, dove il tempo è lo spazio in movimento e la totalità del movimento si identifica con quella del corpo. È lo spessore del corpo che catalizza gli eventi di cui siamo impastati trasformandoli in fatti della nostra vita, per formare l’essenza del nostro vissuto, il nostro mondo , le nostre regole. Il significato delle nostre mani non è solo nella loro struttura, muscolare e nervosa, ma è in quello che riusciamo ad afferrare e in quello che ci sfugge. La potenza deambulatoria delle nostre gambe non è solo nella loro posizione anatomica, ma nelle cose che vogliamo raggiungere ed in quelle che ci possono sfuggire. Le possibilità del nostro sguardo non ci sono indicate solo dalle leggi dell’ottica, ma anche dalla prossimità o lontananza delle cose.

Per disporre, dunque, del proprio corpo, oltre ad una integrità anatomo-funzionale, è necessario un mondo, dove il corpo possa muoversi ed esprimersi con un senso. Un corpo isolato dal mondo diventa oggetto, ed il mondo perde la sua fisionomia, si inficia un dialogo grazie al quale le cose si caricano delle intenzioni del corpo. L’evento traumatico trasforma, quindi, il “corpo d’intenzione” in “oggetto d’attenzione”. L’Io si riduce ai limiti dell’Io posso, fino a delineare una spazialità senza cose ed un tempo senza tempo.

La distruzione dello schema corporeo, operata dalla lesione midollare, deriva dal fatto che il cervello non può più ricevere le informazioni sensoriali di una estesa parte del corpo, parte che è apparentemente intatta, ma che è avvertita come estranea, la si può toccare, vedere, ma non la si può più “sentire”, ne muovere, ne conoscere, sapere se stia bene o male. Non fa più parte del nostro corpo vivente, è solo un oggetto. Toccarsi una gamba, per un paraplegico, è come toccare la gamba di un altro; si è perduta una parte di se, benché la si possa ancora vedere e toccare. La prima angosciante scoperta di chi subisce una lesione midollare, è di percepire il proprio corpo in una certa posizione e di vederlo invece, occupare una posizione diversa nello spazio.

Pensiero ed azione prima intimamente legati, si separano, si modifica perfino la percezione dello spazio e del tempo. Il “nuovo corpo” del para-tetraplegico misura circa 60-70 cm di larghezza, 90-100 di lunghezza, l’altezza è variabile ma non supera il metro e mezzo. Per ruotare su se stesso, ha bisogno di 120-150 cm e gli è precluso l’accesso a locali con porte non a norma (cioè la maggior parte). Naturalmente anche un piccolo scalino è un ostacolo insormontabile che rende impossibile superarlo in modo autosufficiente, lo spazio è vissuto in modo del tutto nuovo, cambia perfino la prospettiva. 

Una persona in carrozzina guarda il mondo circostante e gli altri dal basso verso l’alto, è inevitabile un sentimento di mancanza, di impedimento e di inferiorità, anche se si ha il potenziamento delle capacità di osservazione e la conseguente opportunità di “vedere” i particolari, invece di “guardare” semplicemente gli oggetti osservati.

Inoltre, dal momento che gli atti quotidiani richiedono molto più tempo e fatica e devono osservare un nuovo e preciso rituale, non è infrequente percepire come eterno l’istante ed attribuire alla giornata la durata di sole due o tre ore. I ritmi ed i tempi di svolgimento, anche dei più semplici gesti quotidiani, sono alterati.

Basti pensare che il veloce gesto della normale minzione richiede anche più di mezz’ora, un cateterismo o un cambio di pannolone o di raccoglitore, e non può essere effettuato in un luogo qualsiasi, perché richiede adeguate e precise condizioni. Alzarsi dal letto è questione di pochi secondi , ma per un para-tetraplegico ci vogliono aiuto e tanta fatica per un passaggio in carrozzina. E la lista è lunga.

La giornata tipo di una persona mielolesa è dedicata per un terzo ad attività, che normalmente richiedono complessivamente poco più di un ora. Un para-tetraplegico non può pensare e fare simultaneamente; l’azione è progettata configurata mentalmente nei dettagli prima di essere compiuta, la facoltà progettuale e di pensiero risulta così, velocizzata e potenziata. Ed è questo “nuovo pensiero” a divenire un punto di forza per attivare una propria realtà, frammentata ma totale, con la possibilità di trovare un nuovo equilibrio, la convivenza con un nuovo corpo. 

Dopo la ferita inferta al Sé corporeo, oltre che al midollo spinale, il paraplegico deve accettare, imparare a conoscere e gestire un “corpo nuovo”del quale una parte è corpo vivente ed un’altra molto più corpo fisico, un oggetto a lui estraneo. Ci si sente come un “tronco piantato nel vuoto”, non più capaci nemmeno di mantenere l’equilibrio e con tanta paura di cadere.

  • E ben più grave ed angosciante è la condizione del tetraplegico, che non può servirsi neppure delle mani, non solo non le muove ma non riceve da esse informazioni sensoriali. Chi ha subito una lesione midollare è una sorta di neonato che deve:costruirsi un nuovo schema corporeo;
  • imparare a spostarsi in carrozzina;
  • imparare a compiere i gesti quotidiani (come lavarsi, vestirsi, mangiare, svuotare l’intestino e la vescica ecc.) in modo diverso e più o meno autosufficiente, ma funzionale;
  • imparare a comprendere i messaggi ed i bisogni del corpo, che “non sente” e che non risponde a comandi volontari;
  • deve prendersene cura, utilizzando nuovi e diversi segnali per ottenere informazioni dalla periferia.

Il problema è che questo particolare “neonato” agisce e reagisce, nella nuova vita, ancora sulla base del vecchio schema corporeo. Esso è compromesso, ma non è scomparso, e pertanto rappresenta piuttosto un ostacolo al difficile compito della ricostruzione della propria interezza psicofisica. Tanto più che, nel 70% dei casi, una persona che ha subito un trauma spinale è giovane e, fino a quel momento sana, ed ha condotto una vita attiva e produttiva, ed ora si sente divisa a metà.

Naturalmente, la possibilità della ricostruzione dell’interezza e dell’identità psicofisica è intimamente connessa con la reazione psicologica, sia della persona che ha subito la lesione midollare, che del suo ambiente socio-affettivo (in particolare della famiglia e degli amici). Il primo, difficile compito del paraplegico, è quello di “accettare la verità”, cioè è quello di accettare l’irreversibilità della sua condizione, che implica una disabilità, ma non impedisce, di per se, la ricostruzione del proprio vissuto (affettivo, sociale e lavorativo), anche se su nuove basi, ed in modi adeguati al cambiamento.

  • Infatti, a trasformare la disabilità in handicap, sono piuttosto:l’impreparazione, e spesso l’indifferenza, dell’apparato sanitario;
  • le barriere architettoniche;
  • soprattutto le barriere culturali.

L’handicap è il prodotto di una cultura, che vede nelle persone solo ciò che manca, o ciò che non funziona secondo un modello di “cosiddetta normalità”, e secondo una logica dell’efficienza e della produttività. Ma, in quest’ottica, siamo tutti handicappati perché non esiste nessuno che sia in grado di fare tutto al meglio o che abbia solo qualità positive. Più che di “ portatori di handicap” occorrerebbe parlare di “trovatori e ricevitori di handicap” data la forte connotazione sociale del termine.

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