Le fasce maggiormente colpite sono quelle fra i 75 e i 95 anni, fatto che metterebbe in evidenza un fenomeno, già avvenuto in Francia e nel Regno Unito, denominato “effetto rimbalzo”...
REDAZIONE. L'ultimo rapporto Istat mostra una situazione abbastanza preoccupante. Nel 2015 si è registrato un aumento della mortalità del 9,1% rispetto all’anno precedente, pari a 54 mila unità. Un dato che trova riscontri solo risalendo al 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale.
Le fasce maggiormente colpite sono quelle fra i 75 e i 95 anni, fatto che metterebbe in evidenza un fenomeno, già avvenuto in Francia e nel Regno Unito, denominato “effetto rimbalzo”: diminuzione della mortalità per alcuni anni con raggiungimento poi di un picco alto di risposta in seguito. Lettura che merita ulteriori approfondimenti, dato che si registra anche una contrazione dell'aspettativa di vita a 80,1 anni per gli uomini (- 0,2) e a 84,7 (- 0,3). In aggiunta, il rapporto Ocse evidenzia una riduzione di circa 6 anni della speranza di vita in buona salute, passando dai 67,2 del 2005 ai 61,4 del 2013.
Secondo poi l'ultimo rapporto dell'Osservatorio Civico del 2015 (Cittadinanza attiva e Tribunale dei diritti del malato), 4,3 milioni di italiani hanno rinunciato alle cure sanitarie causa il costo dei ticket. La spesa sanitaria a carico di ognuno risulta così essere del 3,2% contro una media Ocse del 2,8%. Molti altri indicatori, dal numero di posti letto per cronici ed acuti, alla media delle giornate di degenza, alla presenza di punti nascita e di strutture per il trattamento del dolore e delle cure palliative, consegnano un paese con una sanità a macchia di leopardo, con le criticità dei servizi strettamente correlate alla dimensione geografica (Nord – Sud), territoriale (centro – periferia) e socio-economiche.
Infine il rapporto Censis del 2015 specifica che all'interno delle famiglie a basso reddito in due terzi dei casi (66,7%) almeno un componente ha dovuto rinunciare alle cure sanitarie. Dato che si aggiunge al fatto che 7,7 milioni di italiani hanno contratto debiti al fine di sostenere le cure sanitarie, per cui non stupisce se in quasi la metà dei cittadini (42,7%) è presente la percezione di una sanità pubblica in stato di peggioramento. Molti altri indicatori potrebbero essere presi in considerazione mostrando così un fase non particolarmente felice che il Bel paese, o meglio la sua popolazione più debole, sta attraversando in questo momento.
E non si sta parlando certo di pessimi servizi, malasanità e così via, ma di tutto il sistema Italia che mostra segni di cattiva salute. I tagli verticali fatti in questi ultimi decenni a carico del SSN, la progressiva erosione di personale sanitario, ed in particolare di infermieri, e l’aumento di spese e ticket di vario genere si aggiungono a molti altri problemi quali l’alto tasso di disoccupazione e di precarietà del lavoro, i bassi salari, le garanzie sociali sempre più contratte, la corsa ansiosa alla competizione di tutti contro tutti. In tutto ciò molte le considerazioni da fare, specie in qualità di professionisti della salute pubblica, garantita ed universalista. Se l’infermieristica è dottrina dell’assistenza che si esprime nella larga accezione della dimensione epistemologica del metaparadigma elaborato da Jaqueline Fawcett nel 1984, allora oggi più che mai l’infermiere, come singolo, e gli infermieri, quale comunità scientifica e di professionisti, sono chiamati ad un protagonismo attivo.
Sarebbe facile prendersela solo con le caratteristiche di un sistema sanitario sofferente, con alcune scelte politiche decisamente deprecabili, o appellarsi all’urgenza di una maggiore autonomia per uscire finalmente fuori dalle schermaglie fatte contro, tanto per essere espliciti, il famoso comma 566. Tutto questo è necessario, vero e per certi versi quasi scontato. Oggi a fronte di un sistema Italia che soffre, che si mostra rigido, i professionisti dell’assistenza devono però mettere in campo tutte le loro capacità e risorse di essere bene comune, rete di sostegno, maglie elastiche di un patrimonio proprio di chi fa ed è assistenza. Può sembrare facile retorica, belle parole o appello addirittura ad una flessibilità lavorativa che in molti (troppi) casi è già oltre il limite dell’umano. In realtà è qualcosa di più. E’ riconoscere l’identità di fare squadra, mostrare che se il sistema oggi è, nonostante tutto, ancora funzionale ai bisogni della salute individuale e collettiva, è grazie a risorse relazionali e cognitive da sempre messe in campo. Le rigidità e gli steccati corporativi oggi creano solo maggiori divisioni e cattivi risultati e ciò, prima ancora che essere intollerabile, è decisamente disfunzionale e controproducente, specie in un momento di crescita delle disuguaglianze nella salute. Gli infermieri mobilitati quindi come soggetto attivo e di cambiamento del sistema Italia, assieme alle risorse proprie della professione: la capacità di non lasciare da soli nessuno, di non stare da soli, perché, nell’assistere, si ha sempre bisogno dell’aiuto di qualcuno, di stargli vicino, di comunicare con lui: collega, paziente, caregiver, medico, altri o tutti questi messi assieme.
Ecco dunque se il metaparadigma costruisce il quadro di riferimento della professione, la dimensione esperienziale e percettiva dell’infermieristica si carica di un portato relazionale, prossimale e plurale che rappresenta un patrimonio da mettere a disposizione oltre le maglie strette del mondo sanitario. Prima ancora di riuscire a risolvere le tante criticità del SSN o della propria quotidianità lavorativa (in ambulatorio, corsia, ambulanza, etc.), è necessario che il professionista riconosca la sua soggettività di cittadino, di essere umano, di individuo. Se l’assistenza sanitaria è figlia del contesto socio-economico in cui si vive, è necessario quindi prendere in considerazione tutte le variabili al suo interno che possano risultare funzionali o meno a tutelare la salute individuale e collettiva, specie dei più fragili. Un fatto che difficilmente riesce ad essere tradotto in termini quantitativi, ma assume necessariamente una dimensione qualitativa e chiama al protagonismo l’infermieristica per il terzo millennio.
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