Serena: "La mia esperienza lavorativa al carcere non è iniziata per caso, ma come molte cose che succedono nella nostra vita, doveva andare così!"
EMPOLI. Anche se non sono passati molti anni dal momento che mi hanno proclamata “Dottoressa in Infermieristica”, ho avuto varie esperienze lavorative. Oltre i vari luoghi di lavoro che frequento per potermi mantenere, da circa un anno e mezzo sono infermiera in un Carcere Femminile.
La Casa Circondariale di Empoli si trova in una località dispersa, lontana dalla vita civile e sociale che può racchiudere un piccolo o grande centro abitato come un paese o una città.
Intorno solo campi: come se si volesse allontanare questa realtà dal resto del mondo.
La mia esperienza lavorativa al carcere non è iniziata per caso, ma come molte cose che succedono nella nostra vita, doveva andare così: un’amica che lavora come responsabile di una cooperativa sociale, cercava tre infermiere giovani da formare per subentrare al personale che si occupava della Casa Circondariale di Empoli. Sapeva che mi sarebbe piaciuto e mi ha proposto di iniziare questa nuova esperienza.
Il mio primo turno fu di pomeriggio; entrare in questo luogo non è stato come entrare in un qualunque reparto: oltre la sensazione di inadeguatezza, avevo un senso di soffocamento, di mancanza di libertà.
Non sapevo cosa mi sarei trovata a fare, a dire, chi sarebbero state le mie “pazienti”.
Mi dovevo rimettere in gioco e iniziare a vedere la mia professione non solo in rapporto alla malattia, ma anche alla detenzione.
Le donne che “abitano” il carcere non sono malate, o se lo sono, non si trovano qui perché devono essere curate, ma perché devono scontare una pena.
Sembrerà strano, ma dal primo momento che ho conosciuto la prima ragazza (F. di 35 anni circa, nata e vissuta a Pisa), non ho provato nessun pregiudizio.
Non conoscevo il suo reato e quindi il perché si trovasse lì, non sentivo di doverlo sapere: doveva scontare la sua pena e anche se avessi saputo cosa l’avesse condotta in quel luogo, non avrebbe cambiato le cose o il modo di approcciarmi a lei.
Questo è stato da quel momento in avanti il mio modo di agire: conoscerle per quello che sono mettendo da parte i loro sbagli e le loro pene. Analizzare i loro bisogni oltre la loro posizione di detenute: per me sono donne, mamma, nonne, figlie, mogli, dai 18 ai 67 anni circa accumunate dal fatto di dover scontare una pena grande o piccola, giusta o ingiusta che sia.
Non era facile la nostra posizione come “nuove e giovani infermiere”: il personale sanitario che abbiamo dovuto sostituire era formato da persone molto adulte, alcune già in pensione, che portavano aventi questo lavoro senza una linea comune, senza una minima formazione psicologica. Loro erano le Infermiere e dall’altra parte c’erano le detenute con le proprie colpe e le proprie pene.
Non conosciamo il reato di nessuna e non ci informiamo per saperlo; molto spesso sono le donne stesse che ci raccontano il motivo della loro reclusione. Come lo facessero per dirci “non sono una persona così cattiva”, “puoi avere fiducia di me”. Si aprono e a noi questo fa molto piacere, accogliamo le loro emozioni e cerchiamo di renderle meno pesanti. La loro mancanza di libertà è già una grande pena che devono scontare. Portiamo rispetto loro come a qualsiasi altra persona e questo a loro fa piacere, le commuove, sentiamo che CI VOGLIANO BENE, ci stimano.
Lavorare in carcere vuol dire anche aver a che fare con un’organizzazione penitenziaria rigida e piena di regole. Il nostro operato è giudicato e gestito continuamente dalla polizia penitenziaria che molto spesso non capisce i bisogni sanitari delle donne e non ci mette nelle condizioni di agire come faremmo in linea alla nostra etica professionale.
All’inizio vedendoci giovani e inesperte, le assistenti che ci accompagnano all’interno del carcere e organizzano la vita delle detenute, ci dettavano regole a cui era davvero difficile stare dietro. I precetti che ci davano erano:
- “Non parlare di te alle detenute”;
- “Non informale sul loro stato di salute”;
- “Perché non le dai qualcosa per farla stare più calma?”,
- “Non potresti darle qualcosa di più forte!”
Un atteggiamento di superiorità, un sottomettere la nostra etica professionale, le nostre competenze. Abbiamo spiegato loro che per la somministrazione dei farmaci si necessita di prescrizione medica, che la terapia antidepressiva non si somministra a caso, ma dopo colloquio con psicologa, psichiatra, infermiere e medico incaricato.
Adesso le cose vanno meglio perché hanno preso fiducia in noi, perché vedono che le detenute ci stimano, che facciamo il loro bene senza star dietro alle loro richieste.
Le detenute ci vogliano bene davvero, ce lo ripetano continuamente, ce lo dimostrano donandoci piccoli oggetti, anche se questo significa privarsene. Alcune di loro non hanno niente e quel niente lo condividono con noi.
Giorni fa è stata trasferita una ragazza al cc di Sollicciano di Firenze, mi ha abbracciato e mi ha detto: “Infermiè spero di rivederti fuori, ti offro un caffè. Grazie di tutto”, parole accompagnate da lacrime di commozione autentiche, dal cuore, difficile da ritrovare in una persona che non sa cosa vuol dire vivere reclusa ed affidarsi completamente a persone estranee che sono per te quel contatto con il mondo esterno, il mondo reale che un giorno anche loro dovranno riniziare a conoscere e vivere.
Una detenuta, molto facoltosa, “la Signora del Carcere”, come la chiamano le altre, ha scritto una lettera, ringraziandoci di quello che facciamo per loro, per lei, l’umanità che abbiamo nel fare le cose e il rispetto che portiamo verso ognuna di loro.
Questi sono momenti che ti tolgono il fiato e ti fanno capire che essere infermiera non vuol dire solamente curare la malattia, ma educare, rispettare, dialogare sono elementi fondamentali della nostra professione.
Sto imparando tanto da questa esperienza, sono sempre più convinta che mi è servita molto soprattutto a livello personale, sono cresciuta dentro come donna. Rapportarsi a persone, culture, atteggiamenti di vita, diversi e per questo bellissimi da scoprire mi ha reso una persona più ricca di emozioni e sentimenti per cui ringrazio ogni donna della Casa Circondariale di Empoli di avermi dato la possibilità.
Serena Colzi - Infermiera Casa Circondariale di Empoli
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