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Editoriale

Abituarsi alla violenza non è una soluzione. Anzi.

di Giordano Cotichelli

È di qualche giorno fa la notizia dell’attivazione, da parte dell’Opi di Caserta, di un corso di tecniche comunicative contro la violenza in cui modulare conoscenza delle arti marziali e relazione empatica, per far fronte alle minacce e alle aggressioni cui, troppo spesso, gli operatori sanitari vengono coinvolti. Un’iniziativa interessante e degna d’attenzione, specie in questi ultimi tempi, dato che l’uso della forza bruta, della prevaricazione, della legge del più forte e di chi urla di più, sembrano prevalere. Negli stessi talk show televisivi i conduttori, di ogni ordine e grado (si passi l’accostamento), mirano sempre più ad ospitare l’esperto di tesi urlate o il fenomeno da baraccone del chiacchiericcio da bar, piuttosto che dare spazio a chi esprime opinioni basate su argomentazioni ragionate. Il risultato finale è la rappresentazione di uno scontro da tifoseria tossica che, alla fine, impoverisce il pensiero verso la semplificazione viscerale della complessità della vita, le cause dei fenomeni scompaiono lasciando solo gli effetti su cui puntare i riflettori al solo scopo di riprodurli all’infinito. Troppe parole per poter parlare delle recenti stragi compiute negli Stati Uniti? Ce ne vorrebbero molte di più, piuttosto che cercare facili, ma tragiche scorciatoie.

Violenza in ospedale sintomo del depauperamento della sanità pubblica

Ma la barbarie non nasce dal nulla e, averne la consapevolezza, diventa una ragione di più per non arrendersi alla bruttura e alla disumanità di ogni tipo.

Il degrado delle città e l’impoverimento della società sembrano così meglio affrontate con contenzione e TSO, taser e daspo, voti facili da raccattare facendosi fotografare con un fucile imbracciato, piuttosto che con il foglio per un bando d’assunzione di un milione di insegnanti o di infermieri, o con l’avvio di politiche sociali e sanitarie, occupazionali e educative rivolte a ridurre le condizioni di bisogno.

La violenza nelle sale di Pronto soccorso o lungo le corsie degli ospedali è certamente l’esempio di un imbarbarimento culturale e relazionale, ma ancor più di un depauperamento della sanità pubblica dove, alla carenza di posti letto, di prestazioni, di assistenza e di personale si preferisce rispondere dando sfogo (sbagliando) a frustrazioni e rivendicazioni di sorta con l’unico mezzo che si crede possa essere impiegato: la violenza, appunto.

Sembra di stare su una società pronta ad esplodere, o peggio, ad implodere su sé stessa, dove le alienazioni coltivate sui social di quando in quando tracimano della realtà di ogni giorno mietendo vite. In Norvegia, a Utøya, undici anni fa, un trentaduenne suprematista bianco ha ucciso 77 persone, vittime della sua follia nazista e dell’azione catalizzatrice dei social. Negli USA, nel giro di pochi giorni, sono stati uccisi undici bambini, due insegnanti e dieci afroamericani, rispettivamente a Uvalde e a Buffalo. I colpevoli, in entrambi i casi, erano due adolescenti bianchi di 18 anni; il mito americano della via verso la felicità si è trasformato nel peggiore degli incubi di una civiltà che divora i suoi stessi figli. Un dramma che ci riguarda tutti e che non può non riandare alla follia del neofascista Traini che, quattro anni fa, a Macerata, se ne andò in giro per la città a caccia di neri.

Il Presidente Biden ha detto che è ora di limitare il potere delle lobby delle armi. Beh, detto da lui, che sta spendendo miliardi di dollari per alimentare la guerra in Ucraina, suona abbastanza strano. Un senatore statunitense, Chris Murphy è stato più esplicito. Ha gridato ad alta voce: Che cosa stiamo facendo? Questi bambini non sono stati sfortunati […] ed ha sottolineato il fatto che non è possibile vivere in un paese in cui si ha paura di andare a scuola perché c’è il rischio di morire fucilati.

La denuncia di “Bowling for Columbine” del regista Michael Moore, nel film del 2002, è ancora lì, monito inascoltato, per la società statunitense ed anche per tutti coloro che pensano che le armi, la legittima difesa armata, la guerra santa di liberazione per acquisire, o difendere, territori nazionali, sia sempre giusta. In realtà, niente e nessuno può giustificare la perdita di una vita umana, siano essi gli interessi di oligarchi, russi o ucraini, o dei produttori di armi. In ogni luogo, in ogni tempo, per qualsivoglia ragione.

Steve Kerr, l’allenatore della squadra di basket dei Warriors, ha detto di essere stufo e anche lui ha gridato al alta voce: Quando inizieremo a fare qualcosa? Per contro sembra avergli risposto il procuratore dello stato del Texas che ha sentenziato: Non possiamo fermare i cattivi dal fare cose brutte. Ma possiamo armare gli insegnanti a rispondere rapidamente. Una figura istituzionale che fornisce una tale risposta rivela, ancor prima di legittimare, in quanto rappresentante della legge e dell’ordine costituito, come in realtà dietro la benda della dea giustizia rischia di trovarsi l’onnipresente legge del più forte.

Ma la barbarie non nasce dal nulla e, averne la consapevolezza, diventa una ragione di più per non arrendersi alla bruttura e alla disumanità di ogni tipo, continuando giorno dopo giorno, da soli ed assieme agli altri, a dare più forza alla ragione al fine di togliere ragione alla forza.

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