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Fine vita, parliamone

di Monica Vaccaretti

Fine vita, parliamone. E per portare nella società e nella sanità nuove voci ne hanno ben parlato, al Teatro San Marco di Vicenza il 15 settembre, per informare, dal punto di vista legislativo culturale e sociale, sul capitolo finale delle nostre vite quando la gravità della malattia fa perdere la dignità. Credere nella buona morte e rendere dignitoso il percorso, talvolta intollerabile, che porta al fine vita è l'obiettivo dell'associazione Luca Coscioni e di Vinova, che hanno fortemente voluto questo convegno a conclusione della campagna di raccolta firme per il referendum “Eutanasia legale, liberi fino alla fine” che si è svolta anche a Vicenza.

Anche Mina Welby al convegno sul fine vita a Vicenza

Mina Welby

Il tema è particolarmente attuale anche alla luce dell'ultimo report sulla mortalità in Italia e nel mondo: a fronte di un netto calo delle morti improvvise sono esponenzialmente aumentati i decessi per malattie neurologiche degenerative.

Secondo uno studio prospettico 1 persona su 3 di quelle nate nel 2000 diventerà demente. Risulta quindi purtroppo evidente quanto sia aumentato in modo significativo il rischio di ritrovarsi in una condizione di fine vita, spesso lunga e non dignitosa, che comporta una difficile gestione sia in termini di carico per le famiglie che di spesa sanitaria e sociale.

Al convegno, moderato da Diego Silvestri, ne hanno parlato con i cittadini Mina Welby, co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni, Fulvia Tomatis, segretaria della cellula ALC Vicenza-Padova, Marco Azzalini, professore di Diritto privato presso l'Università di Bergamo e vice presidente del comitato etico per la pratica clinica all'Azienda Ospedale Università di Padova, Pietro Manno, responsabile Hospice e presidente del comitato etico dell'Aulss Berica, Daniele Bernardini, medico con esperienza di comitato etico Aulss di Vicenza.

Samantha onorava la vita ed amava la libertà. E mai avrebbe voluto trovarsi così, ne avevamo parlato in casa tra noi. Diceva che non voleva aver bisogno di nessuno, se mai le fosse capitato. L'incontro si è aperto con la forte testimonianza di un padre e di una madre, Giorgio e Genzianella D'Inca. È toccante come sia soltanto il padre di Samantha a raccontare la figlia, perché dice come genitore mi accorgo che il dolore di un padre non è meno doloroso di quello di una madre. È soltanto diverso, ragionato. Quello di una madre sanguina.

Ma la differenza emotiva di cui parla non si vede perché, anche se resta in silenzio all'estremità del palcoscenico, la madre fa sentire tutto il suo dolore. Raccontando il caso clinico, scopriamo che Samantha è una giovane donna in stato di coma vegetativo permanente in seguito a complicanze post operatorie. Non c'è margine di guarigione, non c'è speranza che si risvegli dal coma nonostante le cure e le riabilitazioni.

la locandina del convegno

Per farvi capire come è mia figlia basta dirvi che nella scala di Coma lei è 0, è 1 soltanto per la vigilanza, ci spiega il padre. Tiene gli occhi aperti ma non ti vede, non ti sente, non avverte la tua presenza. È rannicchiata, ha riassunto la posizione fetale. Non lo dice, ma certamente sente dolore per questa sua spasticità. La rigidità le fa cambiare espressione del viso, non la riconosco più. Io ho una voglia matta di andare a trovarla ogni giorno ma ogni volta sto male. Mi manca tanto. Ma so che Samantha l'ho già persa perché così non è più lei. Secondo i medici mia figlia è come una bambina di 1 mese.

Racconta poi della sua battaglia legale per porre fine alla vita di Samantha, come prima di lui hanno fatto Welby, Englaro e Dj Fabo. È in attesa della prossima udienza e dell'ultimo parere del comitato etico cui si è ancora rivolto.

Amo mia figlia e fare quello che lei vorrebbe per la sua vita è l'espressione più grande d'amore. Lasciarla andare mi lascerà un vuoto incolmabile ma mi darà un'altra ragione di vita. Basta un niente dietro l'angolo per finire come Samantha e il testamento biologico è una forma di autotutela per salvaguardare la libertà di scegliere. Mi permette di essere libero della mia persona e libero di gestire la mia libertà.

Resta solo la spoglia di lei, interviene Mina Welby che ci parla della fine della vita e del ruolo delicato e fondamentale che hanno i medici in quel momento. Quello che si deve fare – aiutare il malato a sopportare quello che gli viene fatto perché deve poter sapere, chiedere e rifiutare – è già scritto nella legge già esistente. Quando ci capita un evento per il quale si finisce in rianimazione, il primo compito dei medici è quello di risvegliarci e di rimettere a vivere il nostro corpo. Se poi arriva una diagnosi grave per la quale non ci sono cure il medico deve saper dire con coraggio e gentilezza e il malato o il suo fiduciario deve poter sempre dire anche no, non lo voglio fare.

Sottolineando che la comunicazione è tempo di cura, la signora Welby ha ribadito che i medici, a partire da quelli di famiglia che sono i primi curanti, devono saper conoscere il malato, non solo il suo corpo ma anche la sua psiche. Devono saper parlare con il malato per curarlo meglio.

La bioetica è l'ultimo esame del corso di Medicina - denuncia un giovane medico - Dovrebbe essere insegnato il primo giorno

Signora Welby, mi aiuti, io vorrei morire; le persone te lo dicono quando non ce la fanno più, quando nessuno le ascolta e le prende in carico come vorrebbero. Per andare verso la fine con una malattia che dura occorre avere a fianco un medico che pianifica e parla con il malato. Perché morire non è prendere qualcosa e poi morire. Il morire non va fatto così. È dire al medico di non insistere più. Mina Welby ci racconta che la morte non è più dolorosa con la gentilezza. Le persone come Samantha e Piergiorgio sentono ancora qualche cosa. Anche una carezza. Far muovere le dita delle mani. Sussurrare qualcosa all'orecchio. Occorre ad un certo punto saper lasciare andare in questo modo, con gentilezza, perché come ha ammonito Paolo VI° non bisogna oltraggiare la persona con cure inutili.

Ricevere informazioni sul fine vita

Fulvia Tomatis, sottolineando l'importanza di informare e di informarci per decidere con consapevolezza cosa fare di noi in certe drammatiche situazioni, illustra il progetto Numero Bianco 0699313409, attivo dal 1° gennaio 2021 per rispondere alle esigenze della popolazione di avere informazioni sul fine vita. Il servizio è fornito da un’équipe di 20 volontari dell'Associazione supportati da competenti professionisti della salute.

Delle 3179 chiamate ad oggi ricevute il 29% riguarda informazioni relative all'eutanasia, l'11% al referendum in programma, il 10% al testamento biologico, il 5% all'interruzione della terapia e alla sedazione profonda, il 4% alle cure palliative. Le risposte vengono date in base alla normativa e alla legislazione vigente: legge 219/2017, legge 38/2010, legge 6/2004 e la sentenza 242/2019 relativa al suicidio assistito nel caso Dj Fabo.

Vi si rivolgono malati terminali e familiari, persone colpite da malattie invalidanti progressive, tante persone psichiatriche depresse e stanche di vivere. Dietro ogni chiamata c'è una storia, una persona che si chiede: continuare a vivere soffrendo o porre fine ad una vita che non ha più niente da offrirmi?

Di fronte a questi interrogativi, spesso strazianti, la soluzione non è andare a morire in Svizzera, ma ricorrere innanzitutto al sostegno del medico curante e degli altri professionisti sanitari che dovrebbero essere capaci di affrontare queste tematiche, fornire adeguate informazioni, indirizzare verso le cure palliative a domicilio e negli hospice. Purtroppo, la realtà offerta dal Servizio Sanitario Nazionale, frammentato nelle peculiarità ed autonomie regionali, non riesce a garantire equamente un’assistenza adeguata indirizzata in questo senso e spesso la gestione dei casi relativi al fine vita è lasciata alle capacità individuali e al buon cuore dei sanitari, come ha denunciato un giovane medico lombardo presente in sala.

Ai malati in fine di vita vengono fornite le cure palliative quando non ci sono più trattamenti per allungare la vita. E a questa parte della vita occorre dare qualità anche se è difficile, perché si opera in un terreno di dolore e di sofferenze. Ricordando la toccante lettera che Piergiorgio Welby scrisse al Presidente della Repubblica, il dottor Manno sottolinea che essere medico di cure palliative significa rendere liberi i malati dalla sofferenza fisica.

E quando togliamo il dolore arriva l'angoscia, la sofferenza dell'anima. Significa prendersi carico di tutto, del malato, della sua famiglia, del dolore fisico e di quello psicologico, non meno devastante. E fare tutto questo con il cuore. La comunicazione deve essere leale, perché il malato sa di avere tempo con un limite. Ed in questo tempo che finisce e che resta succedono cose importanti, come chiedere scusa e perdono.

È un tempo, quello del fine vita, di recupero dei sentimenti

Come medici di cure palliative non solo forniamo la terapia della dignità ma invitiamo la persona a lasciare un lascito della propria identità, qualcosa di sé per chi resta. Per rendere migliore il fine vita. Il dottor Manno sottolinea che non c'è accanimento nella parola cure palliative. Sono cure buone che si fanno a domicilio, il posto più bello, anche per morire.

E quando i familiari vogliono tornare a fare i familiari e non gli infermieri, allora l'hospice – che qui a Vicenza abbiamo la fortuna di averlo in Ospedale - diventa una casa. Ha concluso il suo intervento ricordando che oltre al numero bianco dell'Associazione, in ospedale di Vicenza lo sportello del Comitato Etico è aperto per favorire le cure palliative e aiutare a redigere le DAT, le Direttive Anticipate di Trattamento secondo le linee guida del Ministero della Salute.

Azzolini ci racconta che la morte è stata rimossa dal dibattito pubblico. Quello che succede a tutti è indicibile nella nostra società. Nessuno dice “è morto di cancro”, ma “è scomparso, si è spento”. Come mai quindi questa tematica emerge ora in modo importante? Prima non c'era la franchezza di parlarne, fino a pochi anni fa era impensabile. Non si tratta di un’attenzione morbosa ma di una profonda riflessione sociale, indice di un cambiamento della morale.

La legge è lo strumento attuativo di un diritto. E la legge sul fine vita c'è già, è l'articolo 32 della Costituzione. Se c'è la legge significa che il diritto è riconosciuto. Il professore di Diritto difende il medico dalle critiche di non comunicare con il malato, non ha tempo purtroppo. Quando si lavora nelle condizioni in cui operano i sanitari, a volte non c'è tempo né per la comunicazione né per la cura.

Il morente non sta perdendo la sua dignità perché sta morendo, sottolinea, perché la morte è parte integrante della vita. E morire è soggettivo. Poiché la situazione morte non è evitabile, bisogna parlarne. Nel percorso del morire il malato ha il diritto di sapere, di accettare o rifiutare il trattamento, di cambiare idea. E non deve mai essere messo nelle condizioni di decidere sull'onda del dolore. Ogni decisione deve essere presa grazie alla conoscenza e con senso di responsabilità. Sempre più spesso i medici si trovano di fronte a due situazioni drammatiche.

L'anima separata dal corpo e viceversa. Una persona defunta in un corpo vegetante vivo. Una persona senziente in un corpo defunto. Il consenso è una manifestazione dell'essere – continua Azzolin – Si tratta di una possibilità di scelta desunta da una modalità d'essere. È una garanzia posta in maniera onesta che ci tutela. Il professore ritiene che ci sia ancora tanta buona medicina in giro e che non sono tanto i medici ad essere cambiati, dice, è quello che ha davanti il medico che è cambiato come trovarsi sempre più spesso di fronte a stati vegetativi persistenti.

È cambiato il concetto di malattia e ci si deve chiedere cos'è il morire oggi sapendo che abbiamo ora strumenti diversi per capirlo. Come il referendum, che è una campagna in divenire e che ci porterà, non soltanto per un sussulto di consapevolezza del Parlamento, ma anche per la decisa volontà di promulgare una legge, ad elaborare uno statuto del morire. I principi ci sono già, sono stati già rafforzati dalla legge 219. Ci vuole ora un diritto adeguato in un contesto culturale adeguato – ha concluso – e ricordare che il diritto senza buon senso può essere un dramma.

Il dottor Bernardini ha iniziato la sua lunga e profonda relazione sottolineando che le posizioni intransigenti come quelle dettate dalla religione non dovrebbero mai influenzare le decisioni di uno Stato. Serve una mentalità laica aperta e libera. Ha riportato molte riflessioni di carattere etico che hanno lasciato il segno tra il pubblico. Hanno davvero fatto pensare.

Nessuno può costringere qualcuno a restare in vita. Fin dove è lecito allungare la vita biologica? Non è la vita che dobbiamo interrogare ma il vivente. La medicina moderna è potente. Aggressiva, invadente. Questo è innegabile. Un conto è prolungare la vita, un conto ben diverso è non far morire proprio. Che senso ha prolungare la vita biologica se non si ha più coscienza e consapevolezza di sé?

Purtroppo, la medicina è diventata – continua - una lotta ad oltranza contro la morte. Invece bisogna accettare che la nostra vita ha una fine. La vita poi è un diritto o un obbligo? Diritto di vivere e dovere di vivere. Lo stesso vale per la morte. Secondo Bernardini, dobbiamo abituarci a parlare di persona vivente e non di vita, di persone morenti e non di morte. Dobbiamo capire che la dignità della persona prevale sulla salvaguardia della vita biologica. E che la vita umana ha un nome e un cognome. Dobbiamo ancora imparare a lasciare andare la vita verso il suo naturale epilogo.

Il convegno si è concluso con un intervento molto significativo da parte di una signora del pubblico. La malattia, ha detto tra la commozione, ti porta ad una condizione in cui ti dici: devo andarmene.

Nella mia famiglia si muore tutti di cancro. E quando è toccato morire a mia sorella è stata ancora più dura, per me e per lei, era un'infermiera che mi ha detto: Ho visto tanta gente morire ma non pensavo fosse così difficile andarsene. Quando è toccato a me, amici e familiari mi dicevano: Ma perché te ne vuoi andare, sei matta? Prima di entrare in ospedale per le ultime disperate cure e credendo di non uscirne viva, ho redatto il mio testamento biologico e ho provato una sensazione di pace. Mi sono affidata all'Associazione, mi sono sentita presa in carico. Accudita. Ascoltata. Non sono morta, è evidente. Combatto ancora la mia battaglia con il cancro. Non sto bene, ma ho ancora una qualità di vita. Dormo molto poco ma ne sono contenta, perché così posso vivere di più. Ogni giorno mi dico “Viva la vita, perché io sto vivendo”. E credetemi se vi dico che è una gioia immensa esserci ancora.

La bioetica è l'ultimo esame del corso di Medicina, denuncia alla fine un giovane medico. Dovrebbe essere insegnato il primo giorno.

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