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Sentenza

Datore di lavoro responsabile dei danni da ambiente stressogeno

di Monica Vaccaretti

Il datore di lavoro è responsabile per i danni alla salute causati al dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante, anche in assenza di atti qualificabili come mobbing. È tenuto altresì ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni di lavoro “stressogene”. Così la Corte Suprema di Cassazione Civile Sezione Lavoro ha accolto, con la sentenza n. 2084 del 19 gennaio 2024, il ricorso di un dipendente pubblico di un Ente Regionale delle Marche dandogli ragione e ribaltando la sentenza della Corte D'Appello di Ancona (n.130/2018) ritenuta viziata in quanto il giudice ha omesso di valutare ed interpretare in maniera esaustiva le varie condotte reiterate poste in essere dal datore di lavoro.

Cassazione: il datore di lavoro non deve generare condizioni stressogene

Il dipendente chiedeva il risarcimento delle sofferenze psichiche cagionate dal mobbing del datore di lavoro ed aveva portato agli atti alcune circostanze tali da arrecare un grave pregiudizio alla salute del lavoratore (art.360 n.5 cod. proc. Civ.) nonché altre specifiche come una mancata corresponsione di due ore di straordinario, una bassa valutazione poi modificata in sede transattiva, il riconoscimento di un incentivo in una somma inferiore rispetto a quella dovuta. Tali prove non erano state prese in esame dal giudice d'Appello in quanto si era concentrato ad accertare il mobbing.

Il giudice d'Appello non aveva infatti rilevato intenti e comportamenti programmaticamente e volontariamente persecutori o vessatori ma soltanto inadempimenti dell'Ente qualificabili come carenze gestionali ed organizzative ed aveva valutato la dinamica di questi provvedimenti come riconducibili alla fisiologica conflittualità che può instaurarsi fra le parti in un rapporto lavorativo.

Anche considerando una forma attenuata di mobbing la corte di secondo grado non aveva riscontrato un intento persecutorio ovvero un deliberato attacco ai contatti umani, un isolamento sistematico e un mutamento di mansioni. Aveva inoltre ritenuto che, sebbene fosse pacifico tra le parti che le accertate patologie del dipendente discendessero dallo stress lavoro–correlato, tale situazione fosse disgiunta dal comportamento del datore di lavoro e pertanto non ci fosse alcuna responsabilità risarcitoria (ex art.2087 codice civile).

La sentenza n. 2084 del 19 gennaio 2024 ha riconosciuto che, da un lato, il Giudice di Appello ha valorizzato il disturbo scaturito dallo stress lavoro-correlato e, dall'altro, ha del tutto svalutato la domanda del lavoratore ai fini della violazione dell'articolo 2087 del codice civile sulla tutela delle condizioni di lavoro.

Il Giudice di Cassazione sottolinea che, una volta accertato il danno e la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra i due elementi, il diritto al risarcimento non è eludibile. Pertanto, il Giudice di Appello, il quale aveva dato atto che era risultato provato un danno alla salute scaturito dalle condizioni lavorative, come certificato dall'INAIl e dal CTU disposto, non ha disposto il risarcimento.

Nella sentenza di Cassazione si legge che la violazione da parte del Datore di lavoro dell'articolo 2087 Codice civile ha natura contrattuale e dunque il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale con tutte le conseguenze del caso. La parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte. È il debitore-datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui imputabile. Tuttavia, è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che il debitore ha posto in essere un comportamento contrario alle clausole contrattuali o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Quindi ai fini della responsabilità del datore di lavoro per la tecnopatia contratta dal dipendente grava su quest'ultimo l'onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, della malattia e del nesso causale tra la nocività dell'ambiente di lavoro e l'evento dannoso mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver rispettato le norme stabilite in relazione all'attività svolta nonché di aver adottato tutte le misure che siano necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza.

Considerando inoltre il diritto costituzionale alla salute e i principi di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.) ai quali deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il giudice di Cassazione ha inteso l'obbligo datoriale di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro includendo l'obbligo dell'adozione di ogni misura atipica diretta alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori come ad esempio le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi.

Alla luce di tali principi, anche costituzionali, la tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore non ammette sconti – in ragione di fattori quali l'ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva – nella predisposizione di condizioni ambientali sicure, continua la sentenza di Cassazione.

Questo implica anche l'obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, burnout, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale.

La Cassazione spiega inoltre che il diritto esige che tutti i fatti noti emersi nel corso dell'istruzione siano presi in esame dal giudice avendo tutti dignità di prova per svolgere un ragionamento presuntivo. Deve altresì tenere conto nella sua valutazione di precisi elementi dedotti come la gravità delle circostanze e la frustrazione personale e/o professionale così da poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, all'esistenza del danno.

Inoltre sottolinea che non è necessaria, come nel mobbing, la presenza di un unificante comportamento vessatorio ma è sufficiente l'adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici.

Già la sentenza di Cassazione n. 3291/2016 aveva stabilito che è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva.

Il giudice specifica, infine, che è configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente, secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale. Sono invece esclusi dal risarcimento i pregiudizi che derivano dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa. Sono escluse dagli obblighi risarcitori anche i meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, che sono come tali non risarcibili.

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