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Salute

L’isolamento sociale dei malati e il ruolo della cura

di Monica Vaccaretti

I malati e le loro famiglie sono per molti aspetti socialmente isolati, soprattutto nei paesi ad alto reddito. Vivono spesso la “sindrome del paria”, espressione coniata nel 1983 dal medico David Rabin per descrivere la forma più estrema di isolamento sociale delle persone con malattie croniche. Rabin ha sperimentato questa condizione in prima persona, dopo aver ricevuto a 50 anni la diagnosi di malattia del motoneurone.

L’isolamento dei malati: una questione sociale

L'isolamento sociale dei malati cronici rimane un tema centrale nelle riflessioni sulla cura

Sebbene, come società, ci dichiariamo ansiosi di eliminare i tabù sulla malattia e di sostenere i malati, molte più persone preferiscono leggere libri sulla malattia di estranei piuttosto che aiutare parenti e amici con gravi malattie, incluse quelle psichiatriche, ancora fortemente stigmatizzate.

Questo è uno dei temi principali trattati nel libro “Being ill: on sickness, care and abandonment” (Essere malato: sulla malattia, la cura e l'abbandono), scritto da due professori del King's College di Londra. Il volume esplora in maniera pionieristica diversi aspetti legati alla malattia, tra cui:

  • Gli atteggiamenti dei sani nei confronti dei malati.
  • Il significato della cura.
  • L'abbandono e l'emarginazione dei malati e dei morenti.
  • I fondamenti biopsicosociali della salute e della malattia.

Secondo Neil Vickers (professore di letteratura inglese e scienze umane della salute nonché epidemiologo) e Derek Bolton (psicologo clinico e professore emerito di filosofia e psicopatologia), l'abbandono delle persone malate è più frequente di quanto si creda. Per illustrare questa esperienza, citano i versi della poetessa americana Anne Boyer, colpita da un cancro al seno:

Le persone se ne vanno, gli amanti scappano con ogni possibilità che tu possa mai affezionarti a loro, i colleghi ti evitano, i tuoi rivali ora non sono impressionati, i tuoi follower smettono di seguirti.

Gli autori sottolineano che, quando ad una persona viene diagnosticata una grave malattia, il suo gruppo sociale si divide tra:

  • Gli intimi che si avvicinano.
  • Il resto che si dissolve, spesso razionalizzando il distacco come rispetto per la privacy e l'autonomia del malato.

Questa dinamica riflette una società che emargina i malati e fatica ad affrontare la morte, nonostante le campagne di sensibilizzazione e l'attenzione mediatica su questi temi. Secondo gli autori, il crescente interesse per la morte medicalmente assistita può anche derivare dalla paura dell'abbandono.

Nel libro viene proposto un modello di cura basato su tre concetti fondamentali:

  • Holding: il sostegno reciproco nelle situazioni di bisogno.
  • Rispecchiamento: il riconoscimento di sé attraverso gli altri, cercando un riflesso di valore.
  • Compassione: non solo un sentimento, ma un comportamento attivo che supera l'empatia emotiva.

Gli autori affermano che la malattia non è solo un problema biomedico individuale, ma una questione sociale che riguarda le relazioni, le famiglie e le comunità. Ritengono che la società moderna, privilegiando l'autonomia individuale rispetto ai legami collettivi, contribuisca all'isolamento dei malati.

Se vogliamo che ci siano meno malattie nel mondo, abbiamo bisogno di meno disuguaglianze. E se vogliamo gestire meglio le malattie, dobbiamo riflettere sull'impatto delle avversità sociali sul corpo umano.

Concludono che non si tratta solo di migliorare l'accesso alle cure, ma di promuovere una cultura che sostenga l'autonomia e la vita condivisa dei malati e dei loro cari.

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