Tra ondata di calore e ondata Covid le ambulanze hanno un gran sfrecciare e lampeggiare, dal giorno alla notte e dalla notte al giorno. Le sento passare sotto le mie finestre ad ogni ora, vanno a raccogliere e stabilizzare traumi della strada e della montagna, a rianimare e salvare infarti in casa ed annegamenti in piscina, a constatare decessi quando non c'è più niente da fare, a soccorrere malori e contagi virali che la pandemia non è finita. Talvolta mi sorvola anche l'elisoccorso, la rotta per la piazzola in ospedale passa sopra i miei coppi. La cronaca del mattino dopo riporta i dettagli dei soccorsi e dei salvataggi.
È stato strano ritrovarsi dentro il bollettino giornaliero del contagio
Stamattina sono venuti a prendere anche me, semincosciente nell'ingresso di casa. Ho fatto appena in tempo a chiamare il 118 e ad aprire la porta. Conoscere personalmente chi ti risponde dalla Centrale e chi ti raccoglie da terra mi dà sempre un doppio senso di protezione, so bene in che mani sono. Le migliori. Li chiamo per nome.
Credo che la comparsa in casa dei soccorritori qualificati, qualsiasi divisa indossino da professionisti o da volontari, sia sempre un grande sollievo per le persone. È un affidarsi e un fidarsi che commuove. È un bel vedere e un buon sentire, per come si pongono e per quello che fanno.
Quando divento paziente sono loro maggiormente riconoscente per essere venuti a salvarmi. Siamo tutti fragili. Mi metto dall'altra parte perché ci sto, a terra. Sudata, febbricitante. Sto male e adesso starò bene perché ci sono loro, penso mentre l'infermiere mi mette la mascherina e mi dice di respirare lentamente. Straparlo, sarà la febbre sui 40°C, gli dico persino che gli voglio bene.
Riconosco la città dai pezzi di cielo, i lampioni, i tetti dei palazzi, le curve delle strade che portano in ospedale. Stesa sulla barella, fresca e pulita, riesco a scorgere il mondo fuori da qualche finestrino dell'ambulanza, non riesco ad orientarmi, vedo tutto a rovescio. L'autista ha l'accortezza di andare piano, ho la nausea come sull'onda del mare.
L'infermiere, tutto protetto con i dispositivi, ha avuto la gentilezza di coprirmi con un lenzuolo di cotone - ben stirato, non ha una piega - il pigiama stropicciato e la vestaglia in disordine. Pare incredibile quanto l'atto di coprire sia delicato ed importante, protegge dall'imbarazzo e ti permette di raccoglierti, con le mani sul grembo che è la parte che sentiamo indifesa quando siamo sdraiati. È lo stesso infermiere del servizio di urgenza ed emergenza medica che tempo fa mi aveva raccontato quanto trovasse bello e forte il gesto di coprire con la coperta, oggi fa troppo caldo per la lana, mi dice simpaticamente. Sanno fare gesti grandi come salvare vite, sanno fare gesti piccoli come sorridere e far sorridere e parlare con una voce che calma meglio di una molecola chimica.
Partiamo senza sirene, dopo la rilevazione dei parametri, buoni e stabili, rientriamo in codice verde. Il peggio del malore è passato, avrei dovuto farmi soccorrere già durante la notte ma si cerca sempre di resistere per non disturbare. Hanno già un grande lavoro. Si pensa di farcela sempre da soli. Avevo sul comodino, a portata di mano, farmaci, acqua, termometro e saturimetro. Perbacco, sono un'infermiera. E la saturazione non è mai scesa a livelli di soglia.
In una notte terribile ho ripensato a coloro che mi hanno raccontato la loro paura di stare da soli, in isolamento in una stanza, con il respiro che viene a mancarti. E mancava. Io almeno ho tutta la casa per muovermi, se solo riuscissi a scendere dal letto. Il letto mi sembra assurdamente il posto più sicuro dove stare a soffrire e sudare, senza cadere. Per la nottataccia e i sintomi trovo prudente farsi un giro in Pronto Soccorso Covid. Respiro bene ma la febbre è troppo alta.
L'infermiere del Pronto soccorso, in area Covid, è giovane e ben preparato
Mi colpisce per l'eleganza e la dignità con cui si muove e lavora, avvolto nel suo lungo e pesante camice verde annodato in vita. La nostra nuova divisa, penso. È gentile e professionale, lo stile che piace a me. Conduce un'anamnesi completa, fa bene l'intervista, è bello parlare lo stesso linguaggio.
Non sento nessun dolore mentre mi prende un accesso venoso con un gauge di grosso calibro, un ago verde. Mi preleva tre provette per gli esami ematochimici. Non fa versare nemmeno una goccia di sangue sulla pelle mentre mi collega il raccordo a tre vie e mi somministra tutte le fleboclisi prescritte. Ha una presa decisa, le dita si muovono sicure. Trovo meraviglioso il gocciolio nel pozzetto, l'arsura della gola e il calore della testa sono meno intense ad ogni goccia che mi entra con la soluzione reidratante e i medicamenti appropriati.
Procede con l'emogasanalisi arterioso al primo colpo pungendo con agilità e applicandomi una compressiva ben fatta, intrisa di betadine. Nessun ematoma. Parametri, flebo, mi informa, mi spiega il percorso assistenziale. Mi chiede come sto, con costanza. Mica è cosa da poco. Si scusa del ritardo per la radiografia al torace, arrivano appena possibile, ci sono altre urgenze.
Mentre le ore passano e sto meglio, lo osservo andare da una parte all'altra, entra ed esce dalle stanze, risponde al telefono. Coordina, organizza, ordina. È multitasking. Sento le consegne infermieristiche tra i due triage, quello generale e quello Covid. Riconosco le voci di altri infermieri. Parlano bene, mi piacciono i loro toni. Sono sicuri, hanno padronanza e competenza. Non sono cambiati i miei colleghi. Mi fa piacere. Sono rassicuranti soltanto a sentirli.
I polmoni sono liberi, trasparenti. Mi mandano a casa. La febbre ha un valore accettabile, sono reidratata. Rilevano una gran infiammazione dalla PCR, mi aggiungono il cortisone alla terapia già in atto. Sono completamente afona. L'infermiere mi accompagna all'uscita, sino quasi sull'auto che è venuta a prendermi. Mi sento scortata dall'infermiere con il camice verde. Gli auguro tante cose belle, salutandolo con la mano da distante voltandomi per ringraziarlo. Gli faccio i complimenti per i suoi modi e per il suo agire, rivelandomi sua collega.
Il Pronto soccorso è il posto più bello del mondo, mi dice con quel trepidante luccichio che ho avuto anche io per tanti anni. Ti capisco, allora non andartene mai da qui. Fa’ di tutto per restarci, finché ci riuscirai. E resta così, come gli altri “vecchi” che sono ancora qui, con te nel turno di oggi”
Me ne torno a casa, con la gioia di un incontro bello con un infermiere new generation. Mi ha reso orgogliosa vedere il suo orgoglio. Mi sono ricordata del mio. Lo ringrazio sin dentro l'anima, per la salute migliorata e per il senso di appartenenza che mi ha ridato senza neanche saperlo. Lui pensa solo di aver fatto bene il suo lavoro.
Non sai mai come ti piglia finché non ti piglia, ho sempre pensato osservando il contagio negli altri e conservando nel cuore le loro storie, tra tamponi e vaccini. Certamente il virus, che ora ha una circolazione incontrollata, non ha cambiato pelle adesso che ha incontrato la mia, di pelle. Sono i giorni in cui in Italia abbiamo ripreso a contare 700 morti a settimana, terzi nel mondo per mortalità, e siamo nel pieno della settima ondata in Europa che ha abbandonato ogni restrizione. Ed io mi ritrovo, dopo dieci giorni dalla positività al molecolare – che il rapido era negativo nonostante fossi francamente sintomatica, come sta capitando a tanti – ancora profondamente astenica e in convalescenza. Nessuna energia, nessuna concentrazione. Spossatezza estrema. La tosse la sedo tre volte a giorno.
L'ho sempre saputo, ma ora che lo sto vivendo posso ben ribadire che Covid-19 non è un'influenza, nemmeno la peggiore che abbia avuto da bambina che da adulta non mi sono ammalata mai. Non ho mai preso nessuna malattia infettiva, nemmeno il morbillo mangiando con posate contaminate. Ne andavo fiera del mio sistema immunitario. Ho capitolato con Omicron 5.
Ho resistito - con rigore e coerenza, dispositivi di protezione individuale e misure restrittive - sin che ho potuto cavalcando le ondate dal virus originale sino alla Delta e a Omicron 2. Poi la contagiosità fuori misura ha rotto gli argini. Covid-19 non è tantomeno un raffreddore, la rinite è soltanto uno dei tanti sintomi che accompagna la malattia e che a me è comparso da ultimo, dopo aver provato tutti gli altri ben più pesanti di uno starnuto.
I vaccini mi hanno protetta da malattia grave
Sars-CoV-2 nella sua versione aggiornata Omicron 5 non si è affatto “raffreddurizzato”. Grazie alla scienza i vaccini mi hanno protetto da malattia grave e morte, come è sempre stato detto sono efficaci e sicuri. Ma l'ho preso pesante, pertanto non oso pensare a quello che hanno provato coloro che si sono ammalati prima della loro scoperta.
Ammalarsi di Covid-19 – sperando di non avere esiti a lungo termine – non è affatto salutare, né per il corpo né per la mente. Sapevo che gli anticorpi, maturati lo scorso novembre con la terza dose, erano davvero ridotti all'osso dopo nove mesi, come tra la seconda e la terza, la scienza ha sempre detto anche questo. E niente hanno potuto, come difesa di prima linea, di fronte al virus che mi è entrato dentro con tanta forza ed inganno.
Rispettando perfettamente i tempi definiti dai dati scientifici, Ba.5 mi ha steso dopo 3 giorni dal contagio (la media è di 3-5 giorni con una incubazione di 2-14 giorni), avvenuto prendendo un aperitivo con mio figlio, nella cucina di casa, con la finestra aperta. Mi sembrava di essere nella galleria del vento tanto c'era corrente tra le stanze. Eppure, come da copione, il momento conviviale è da sempre il più rischioso. L'ho predicato tante volte.
È stato strano ritrovarsi, per la prima volta, dentro il bollettino giornaliero del contagio. Il 12 luglio c'ero anche io tra i 142.967 tamponi positivi. E grazie alla vaccinazione sono rimasta nella riga dei positivi, senza scendere in quella dei ricoveri. Difficile sfuggire, nonostante tutto il rigore osservato in due anni, se il virus trova il modo di entrarti in casa. Ho accettato ineluttabilmente la diagnosi perché non me lo sono andato a cercare e ho fatto sempre tutto il possibile per evitarlo come la peste, con una socialità ridotta al lumicino e le misure sanitarie diventate naturalmente una sana abitudine.
L'iperpiressia a 40°, con brivido scuotente, che non scendeva con i farmaci e il malessere generalizzato mi hanno portato ad un malore. La sintomatologia è stata improvvisa, violenta e progressiva. Faringodinia, afonia, febbre, dolore muscolare intenso, nausea da non trattenere nessun liquido nemmeno la saliva, cefalea, tosse, raffreddore, astenia da non riuscire a fare il giro della tavola, come capita dopo un intervento chirurgico in anestesia generale.
Dopo un giorno e una notte di dolore diffuso e calore, pur con una saturazione che non è mai scesa sotto il 97%, mi sono fatta un giro in Pronto soccorso Covid. Nella mattinata che ho trascorso in quell'area dedicata ho pienamente realizzato, con serenità d'animo nonostante il malessere importante, che l'infezione che mi ha colpito si è fermata alle alte vie aeree grazie alla tripla vaccinazione.
I linfociti T, le cellule della memoria, hanno condotto brillantemente la loro strenua difesa di seconda linea ed hanno impedito che l'infiammazione raggiungesse i polmoni. Normoespansi. Senza ombre opache ed ispessite. La pesantezza dell'infezione è documentata da una PCR elevata, ho il corpo infiammato e serve cortisone.
Per tutto il tempo in cui sono stata male, dai primi sintomi sino al momento più critico, ho sempre avuto addosso la serena consapevolezza che il vaccino ha mitigato l'impatto della malattia e ha dato sollievo ai sintomi che potevano essere decisamente più pesanti e persistere più a lungo, provocandomi più disagio ed insofferenza. È un'altra cosa affrontare la malattia con il vaccino. Anche mentalmente
Il valore aggiunto della cura, dopo la prevenzione con vaccini e dei dispositivi di protezione individuale, si manifesta, qualora si renda necessaria per diverse gravità, nell'assistenza sanitaria, dalla presa in carico sulla porta – quella blindata di casa, quella scorrevole dell'ambulanza, quella automatica di un’Area isolata - sino alla dimissione, grazie alla tempestività e all'efficienza, alla professionalità e alla gentilezza.
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