Il 18 marzo, da quattro anni, non è un giorno come tanti, prossimo ad un altro equinozio di primavera, simbolo di rinascita della natura e ripartenza di una nuova stagione. È diventato un giorno funebre che la memoria collettiva non dovrebbe dimenticare, almeno eticamente. Si dovrebbe manifestare rispetto, basterebbe anche solo intimamente, verso coloro che hanno perso malamente la vita durante la pandemia e verso quelli che hanno avuto la buona sorte di scamparla perché non hanno comunque patito di meno. Come operatori sanitari ne siamo stati testimoni, più degli altri per il ruolo che vi abbiamo svolto e con un sentimento più forte per l'empatia che ci abbiamo messo.
Se dimentichiamo dopo 4 anni, cosa ne sarà di questa storia tra cento?
Fare restare sotto la cenere le vittime di quel fuoco violento serve per restituire loro giustizia e memoria storica .
Le scritte ingiuriose comparse alla vigilia del 18 marzo sui muri del primo centro vaccinale lombardo, che era stato aperto a Spirano in provincia di Bergamo, non mostrano rispetto né riconoscenza nemmeno verso coloro che, nei panni dei sanitari, hanno avuto la parte degli eroi per caso e hanno compiuto bene il loro dovere verso la comunità.
Ci si dimentica che molti di loro hanno perso la salute fisica e mentale per aver sostenuto la battaglia impari contro il virus. Non ci si ricorda più che per oltre cinquecento di loro è capitato di perdere la vita. Fa ancora male, ogni volta che le frasi spruzzate di rosso rivendicano falsità storiche e scientifiche.
Secondo il sindaco della cittadina sono un atto ignobile, vile, indegne di un popolo che ha tanto tribolato. Tutto ha un limite e questi gesti sono andati oltre tutto: il rispetto, il buon senso, l'educazione. E denigrano il lavoro dei professionisti della salute , ha dichiarato promettendo denunce nelle sedi opportune.
Simboli e parole simili si rinnovano spesso anche nella mia città, sui muri delle scuole, sui cartelloni pubblicitari e sui pali delle fermate degli autobus, che nessuna malta nuova riesce a nascondere del tutto. Le cancellano, le rifanno fresche. Riaffiorano, riportando a galla rancori e sgomento, da una parte e dall'altra.
A distanza di anni, sono ancora pochi, sembra già incredibile aver attraversato quei fatti. E poiché nessuno ne parla più e tutto sembra tornato normale, quasi che non sia mai capitato, diventa più facile lasciarsi andare alla dimenticanza, incolpevolmente. Se dimentichiamo già dopo quattro anni, cosa ne sarà di questa storia tra cento?
Poiché abbiamo vissuto una comune immane tragedia, conservare quel ricordo come fosse brace ancora viva sotto la cenere del focolare domestico diventa un atto di pietà e di calore umano. Come si può dimenticare quella notte marzolina del 2020 in cui un lungo e lento convoglio di camion militari lasciava il cimitero monumentale di Bergamo in un silenzio spettrale? Attraversava mestamente la città che era diventata, dopo Whuan, l'epicentro virale del mondo occidentale.
Mentre le ambulanze correvano da una parte all'altra, l'esercito trasportava bare. A centinaia. Gli impianti funerari della regione non riuscivano più a sostenere l'impressionante numero di morti che cresceva, ora dopo ora, nella prima devastante ondata della pandemia. Gli ospedali erano in trincea, diventati disperatamente lazzaretti, come ai tempi della peste si moriva persino a casa.
Così i defunti destinati alla cremazione, come prevedevano le norme sanitarie, venivano portati in altre città che avevano accettato di farsene carico. Anche nella mia. Tre camion sono passati in fila sotto la mia finestra, di buon mattino, dirigendosi nel cimitero che si trova a qualche centinaio di passi.
Quell'immagine mi è rimasta scolpita nel cuore e ha suscitato un impatto emotivo non meno devastante di quella lungo Borgo Palazzo, scattata da una finestra bergamasca, diventata il simbolo della tragedia che abbiamo vissuto. Da lontano, sotto un cipresso lungo i filari del viale cimiteriale, ho partecipato in silenzio e con le lacrime all'accoglienza delle salme. Che non era nemmeno un funerale.
Ricordo di aver provato un brivido mentre il corteo funebre mi passava davanti mentre uscivo dal portoncino per andare a lavorare in un ospedale che si preparava ad essere travolto a sua volta dall'ondata . Era questione di giorni, quanto ci mette un virus a valicare i confini di una regione? , mi chiedevo spaventata. In fondo Bergamo è a due fermate di treno da qui, pensavo.
Ricordo che, come oggi, le aiuole all'ingresso costeggiavano il monumentale edificio di mattoni rossi bugnati ed erano imperturbabilmente colorate nel grigiore della giornata. Anche il cielo era di cenere. Sul piazzale c'erano soltanto i petali delle viole del pensiero, qualche agente di polizia locale e qualche autorità.
I becchini erano dignitosi e professionali al loro posto. Nel segreto del cortile interno e degli addetti ai lavori quelle bare sono state calate dai camion e portate nell'ara, senza un fiore e senza cortei, né parenti e lamenti. Soltanto, forse, con la benedizione di un prete. Quelle ceneri sono poi tornate a casa, nella solitudine del lutto, qualche giorno più tardi mentre l'ondata pestilenziale travolgeva anche noi. E davamo sepoltura alle ceneri della nostra gente.
Affinché il ricordo sconvolgente non resti sepolto sotto l'indifferenza e la dimenticanza verso quegli sventurati, ogni 18 marzo si commemora il tragico evento. È la Giornata nazionale della Memoria delle vittime dell'epidemia di Coronavirus , istituita il 17 marzo 2021. Sin dal mattino di lunedì a Bergamo sono state organizzate commemorazioni al Bosco della Memoria, un giardino in cui sono state piantati 750 alberi ed arbusti come simbolo di un luogo di speranza che vive e respira dopo la tragedia che qui si è consumata. Nel pomeriggio il sindaco di Bergamo Giorgio Gori insieme alle autorità locali vi deporrà una corona di fiori, alla presenza del commissario europeo per l'economia, Paolo Gentiloni, e del presidente del Consiglio Superiore di Sanità, il bergamasco Giorgio Locatelli.
La pandemia ha segnato profondamente le nostre vite, ma a distanza di quattro anni viene da chiedersi quanto le persone ricordino ancora, come fosse oggi e non un film dell'orrore, quel tragico periodo della storia. Sembra che non ci sia in giro voglia di ricordare ma piuttosto di rimuovere.
Nella fretta di voltare pagina ci si è dimenticati di quei seimila morti nella bergamasca che riempivano obitori e corridoi degli ospedali e non trovavano più posto nemmeno nelle chiese liberate dai banchi delle messe. A quelle prime migliaia se ne sono aggiunti altri duecento mila, ondata dopo ondata, 41 nell'ultima settimana e 133 degli ultimi trenta giorni.
Sembra che insofferenza e stanchezza abbiano sfiancato, con il passare del tempo, anche gli stessi operatori sanitari che in quei giorni ”facevano gli eroi” . E cadevano, come i pazienti che curavano, vittime del Covid. Tra medici ed infermieri ne abbiamo perduti, così, oltre cinquecento. Oggi è anche il loro giorno della memoria. Anche loro sono passati attraverso l'angoscia, il sacrifico, la massima dedizione al lavoro sino all'eroismo. Anche loro sono passati attraverso il camino, portati chissà dove.
A Bergamo, a conclusione della giornata commemorativa, sarà proiettato la sera il documentario “Sotto la cenere ” del regista Amir Saleh che ha portato la storia della strage in 32 festival cinematografici internazionali ottenendo numerosi riconoscimenti. Il ricavato della serata sarà devoluto all'Associazione dei familiari delle vittime del Covid-19 “Sereniesempreuniti” e per l'acquisto di un'ambulanza per le vittime di guerra.
Secondo il regista, che da sempre si occupa di tematiche sociali nel suo cinema del reale, ha senso ricordare ancora quattro anni dopo per non far morire di nuovo le vittime. Il documentario racconta la crisi innescata a Bergamo, come una miccia che ha poi fatto esplodere la pandemia in tutta Italia, e la risposta della cittadinanza, tra dolore infinito e solidarietà immensa.
Il titolo prende spunto da un proverbio dialettale che descrive il carattere della gente bergamasca che s'infiamma di rado ma sotto la cenere conserva viva una brace sempre accesa .
Il significato che il regista vuole lasciare è che la salute non deve mai essere messa al secondo posto nella vita di una persona e di una comunità . A che serve lavorare tanto, produrre ricchezza e Pil se poi non puoi fermarti neanche quando c'è in giro un virus letale? , ricorda con una nota di denuncia di quel che capitò in quei giorni.
Fare restare sotto la cenere le vittime di quel fuoco violento serve per restituire loro giustizia e memoria storica. Mantenere vivo sotto la cenere il ricordo dei fatti e il sentimento che abbiamo vissuto e condiviso, pur con diversi gradi di sensibilità e sofferenza, aiuta i superstiti a conservare la propria umanità, anche ora che il pericolo sembra essersi allontanato.
Il dolore, un tempo acuto e straziante, si assopisce naturalmente con il passare del tempo. Non è sano vivere nel passato e in un dolore cronico. Che il 18 marzo continui ad essere allora un monito, come è intenzione per ogni giorno della memoria, che ciò che è capitato non debba ripetersi. Che il 18 marzo ci sproni a riprovare ad essere davvero migliori, come ci si riprometteva allora.
Commento (0)
Devi fare il login per lasciare un commento. Non sei iscritto ?