Nurse24.it

COVID-19

Le nostre pagine di buona sanità, resistenza e volontà

di Arianna Caputo

È da giorni, forse troppi, che proviamo a descrivere come sia la vita tra le mura di un ospedale. Che odore abbia. Che sapore. Le voci amareggiate ed impaurite dei colleghi mettono i brividi. I nostri blocchi operatori sono, improvvisamente, diventati terapie intensive. Esperti e meno esperti, in poche ore, in pochi giorni, hanno imparato il necessario per poter passare dall’essere uno strumentista ad un infermiere di Terapia intensiva. Con le mille insicurezze ed indecisioni che attanagliano chiunque possa ritrovarsi, in un colpo solo, a svolgere un lavoro diverso e a dover prendere decisioni importanti in pochi istanti. Tra circa dieci anni, in primavera, parlerò a mia figlia di come il mondo è tornato a girare. Di come abbiamo resistito nei nostri reparti, nelle nostre case. Ognuno con i propri timori. Le racconterò di noi: infermieri, medici e personale sanitario, quando nessuno lo farà più. E le dirò che, nella vita, è fondamentale scegliere il lavoro che si ama. Perché non si può giocare a fare gli eroi per un giorno e basta. Perché la maggior parte dei poteri esistenti, hanno radici marce. Per questo, alla fine, diventano solo poteri distruttivi.

Tra circa dieci anni. In primavera

Da giorni proviamo a descrivere come sia la vita tra le mura di un ospedale Covid

Sì, tra circa dieci anni in primavera, mi immagino così: con una figlia tra le braccia a cui poter raccontare qualche breve ma intenso passo di vita vissuta mentre lei non c’era. Di com’era il mondo quando non poteva ancora guardarlo, di quanto è diverso da come lo raccontano i libri, la televisione, le fiabe. Di quanto è lontano dalle sue fantasie.

Chi lo avrebbe mai detto? Studiamo capitoli e capitoli di storia... e poi, tutto ad un tratto, qualcuno ci mette una penna tra le mani e ci impone: “Scrivete”.

La verità è che ora siamo tutti un po’ stanchi di scrivere. E conserviamo voce e respiri per poter raccontare a qualcuno cosa stia realmente accadendo. Per dare un consiglio, una spiegazione, un’informazione.

È da giorni, forse troppi, che proviamo a descrivere come sia la vita tra le mura di un ospedale. Che odore abbia. Che sapore. Le voci amareggiate ed impaurite dei colleghi mettono i brividi. I nostri blocchi operatori sono, improvvisamente, diventati terapie intensive. Esperti e meno esperti, in poche ore, in pochi giorni, hanno imparato il necessario per poter passare dall’essere uno strumentista ad un infermiere di Terapia intensiva. Con le mille insicurezze ed indecisioni che attanagliano chiunque possa ritrovarsi, in un colpo solo, a svolgere un lavoro diverso e a dover prendere decisioni importanti in pochi istanti.

Giovani e giovanissimi sul trampolino di lancio. Il primo impiego della vita: si tentenna di prima di potersi lanciare. Ma, in fin dei conti, ogni salto è un salto nel vuoto.

Nuove sale operatorie dedicate ai soli casi positivi. Sanificare continuamente gli ambienti. Intervenire o non intervenire chirurgicamente? Come tutelare gli altri pazienti? Come tutelare noi stessi? Come fare ad agire secondo quelle che sono le “priorità”? Come scegliere chi deve essere “curato” e chi no? Chi siamo noi per farlo? E, soprattutto, la domanda più umana e banale: “Perché?”. Perché siamo costretti a farlo? Non dovremmo mai, mai, trovarci in condizioni di dover scegliere tra una vita ed un’altra. Eppure, va fatto.

Gli spazi non sembrano più gli stessi. È cambiato tutto. Prima ci sentivamo a casa tra quelle quattro mura. Ora siamo estranei. Si urla. Si corre. Si discute. E, intanto, c’è chi soffre. Chi aspetta noi per poter tenere in vita la speranza.

Che strana la guerra

Noi: inermi e, al tempo stesso, frenetici. Vige il caos. Entropia bellica. Che strana la guerra, eh? Forse ci aspettavamo bombe ed armi. E invece, mentre tutto muta, cambia anche il modo di combattere. Cambiano i nemici. Cambiano i mezzi a disposizione. E fa paura, perché di una guerra così non se ne è mai sentito parlare. Non compare sui testi. E non esistono manuali.

È da giorni, forse troppi, che veniamo considerati “eroi”. Ma, purtroppo, qui siamo tutti sprovvisti di superpoteri. E poi gli eroi finiscono sui fumetti, diventano protagonisti di film e serie televisive. Noi, invece, dove finiremo?

Ma poco importa... A noi basta restare tra quelle quattro mura d’ospedale, nel nostro blocco operatorio, e svolgere il lavoro che abbiamo scelto. Con assoluta dedizione e massima professionalità. Non siamo eroi. E, tra circa dieci anni, in primavera, non penserei mai di poter dire a mia figlia di avere superpoteri. Immaginate la mia faccia se dovesse chiedermi di mostrarle come si vola!

Però, le racconterei di questa nostra stagione. Dei fiori pronti a germogliare e di un popolo che li osserva stando dietro le finestre. Facendo a pugni contro le proprie paure e gli straripanti pensieri. Contro il tempo. Contro l’aria che si respira.

È da giorni, forse troppi, che tutti ci acclamano. Ed il cuore gioisce ad ogni applauso. Perfino i politici si congratulano e ringraziano. Ma questo è il lavoro che svolgiamo ogni santo giorno. Sempre. E sono molto dispiaciuta nessuno se ne sia mai accorto in precedenza.

Insomma, le persone stavano male anche prima. Gli interventi chirurgici venivano effettuati anche prima. I nostri pazienti morivano anche prima

Però questo non ha mai fatto notizia perché tutto sembrava seguire le linee naturali della vita: un percorso con un inizio ed una fine. Ma nessuno sa quanto impegno sia stato profuso dal personale sanitario dietro quelle vite, quelle storie, quelle parentesi di malattia. Nessuno sa quanta responsabilità, quanta rapidità, quanta prontezza e quanta lucidità ci siano in una camera operatoria. Ore di lavoro, di studio, di straordinari. Ore di paura, di preoccupazioni, di scartoffie.

Per tutti, sempre

Perché è questo il bello del nostro Servizio Sanitario Nazionale: che tende una mano a chiunque ne abbia bisogno. Indistintamente dal colore della pelle, dalla professione, dalla “classe sociale”, dalla provenienza, dalla religione. E noi ci siamo sempre stati. E sempre ci saremo. Per tutti.

Ma mentre qualcuno ancora mastica belle parole, quasi sorpreso del fatto vi sia una così profonda dedizione, noi restiamo nei nostri reparti, nelle nostre unità operative. Accanto a pazienti potenzialmente infetti. Accanto ad altri pazienti che combattono la loro guerra contro altre patologie. Accanto a colleghi che hanno visto altri colleghi ammalarsi, cedere. E che sono lì, con te, per continuare a credere che tutto andrà bene.

Ma dietro figure retoriche ben scelte e discorsi commuoventi da parte dei politici, in pochi hanno cercato di “fare”. In maniera concreta. Sono troppo giovane ed entusiasta, o come direbbe una canzone troppo “giovane e stupida” per poter pretendere, volere o ricercare un compenso economico. Ma no. Questo è il mio lavoro. Ne sono orgogliosa, fiera.

Quello che davvero vorrei, da “giovane e stupida”, è sentirmi tutelata. Sarebbe la forma di apprezzamento più dignitosa e vera che possa esistere

“Ti fornisco di tutto ciò di cui hai bisogno affinché tu possa lavorare con serenità. Cosicché tra dieci anni, in primavera, tu possa davvero raccontare a tua figlia questa fetta di stagione fuori dal tempo. Cosicché lei non possa pensare che si trattasse di un mondo abitato da mostri, abili poeti incapaci a scrivere un finale felice”.

Ascolto di continuo testimonianze di colleghi, di tutt’Italia. D’Europa. Del mondo. Siamo tutti sfiniti. Stanchi. Le mascherine lasciano i segni sul volto. E indossarle a lungo equivale a non respirare.

Si deve indossare una “tuta speciale” per poter entrare in contatto coi pazienti Covid positivi. Ma questo non ci fa sentire affatto supereroi. Piuttosto, dobbiamo vestirci e svestirci con cautela. Fare attenzione ad ogni minimo gesto per impedire il contagio. Contenere ogni bisogno fisiologico per tutto il tempo, perché non è possibile sfilarsi la tuta e bere, mangiare, fare pipì.

Non è semplice. Soprattutto quando si è tremendamente stanchi. Non lo avevamo mai fatto prima. La sala operatoria ha un altro volto, adesso. E anche noi abbiamo volti diversi. Stanchi. Ma mai, mai, caratterizzati da sguardi arresi.

E quando poi torni a casa, devi lasciare fuori la porta non solo le scarpe, ma anche i pensieri. E non c’è nessuno a cui tu possa raccontare la tua giornata per stemperare l’ansia, perché in quella casa sei solo. Perché non puoi rientrare a casa (quando rientri) e pensare di poter eventualmente infettare i tuoi cari.

Sarebbe solo un fardello in più. Un senso di colpa in grado di annientarti. Ascolto pezzi di vita comune di persone che parlano dei loro giorni di quarantena. Ci si reinventa per ingannare il tempo. Ci si ritrova, forse.

Tra circa dieci anni, in primavera, parlerò a mia figlia di come il mondo è tornato a girare. Di come abbiamo resistito nei nostri reparti, nelle nostre case. Ognuno con i propri timori. Le racconterò di noi: infermieri, medici e personale sanitario, quando nessuno lo farà più. E le dirò che nella vita è fondamentale scegliere il lavoro che si ama. Perché non si può giocare a fare gli eroi per un giorno e basta. Perché la maggior parte dei poteri esistenti, hanno radici marce. Per questo, alla fine, diventano solo poteri distruttivi.

Kipling scriveva in una sua celebre poesia: “Se sai forzare cuore, nervi e tendini dritti allo scopo. Ben oltre la stanchezza... A tener duro quando in te nient’altro esiste tranne il comando della Volontà [...] Il mondo è tuo. Con tutto ciò che ha dentro. E, ancor di più, ragazzo mio, sei uomo”.

Ed è di questo che abbiamo bisogno. Di uomini. Non di eroi. Perché la storia non è scritta da chi ha superpoteri. Ma da chi decide di afferrare una penna tra le mani e di iniziare a scrivere. Mosso dai pochi veri poteri che esistono: amore, rispetto, passione.

Queste sono le nostre pagine di buona sanità. Di resistenza. Di volontà. Ne siamo protagonisti attenti e consapevoli. Potranno strapparle o sputarci sopra. Potranno pubblicarle in memoria di questa primavera. L’unica cosa che conta davvero, è che domani si possano ancora guardare i fiori germogliare. Domani. E tra circa dieci anni.

In primavera.

Infermiere

Commento (0)