Infermiere Forense
Negli ultimi anni una delle più grandi rivendicazioni del personale infermieristico ha riguardato la competenza nel pagamento dell’iscrizione all’albo professionale, presso gli OPI. In particolare, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni affermano che il suddetto obbligo debba essere trasferito al datore di lavoro - in considerazione dell’esclusività del rapporto di lavoro - condizione che vieta all’infermiere di poter esercitare la propria professione in regime di intramoenia o addirittura per altri soggetti. Alcune sentenze hanno seguito tale orientamento altre, diversamente, hanno restituito agli infermieri la paternità di codesta operazione economica. Concentriamo la nostra attenzione proprio su una recentissima sentenza di secondo grado, che ha rigettato l’appello di un infermiere che aveva chiesto al Giudice del Lavoro del Tribunale di Salerno di ingiungere alla azienda sanitaria locale il rimborso della propria iscrizione all’allora IPASVI per gli anni dal 2005 al 2015.
Infermiere o datore di lavoro, a chi spetta pagare la quota OPI?
Partendo da alcuni riferimenti legislativi contrapposti ad altre sentenze, fornendo tuttavia una prospettiva nuova e non del tutto peregrina, proviamo a fare chiarezza al riguardo, consapevoli che la presente elaborazione potrebbe diventare presto “superata”, alla luce delle iniziative tuttora in corso miranti alla concessione, anche per gli infermieri, del diritto di esercitare attività libero-professionale intramuraria, altresì in regime di lavoro dipendente presso strutture sanitarie pubbliche (Disegno di legge 1284 del 21/02/2021).
La sentenza che stiamo per commentare racchiude alcune tipiche contraddittorietà cronicamente presenti nella gran parte dei principali atti normativi italiani. Essa ha come protagonista un infermiere, dipendente della ASL Salerno che, mosso da una precedente deliberazione favorevole a suo avviso, decide di chiedere il rimborso (al proprio datore di lavoro) della tassa di iscrizione all’albo professionale degli infermieri. Ed in un primo momento le cose sembrano andargli bene: il Giudice del lavoro del Tribunale di Salerno emette un decreto ingiuntivo verso la ASL stessa (€ 432,64 a titolo di rimborso dell’iscrizione IPASVI per gli anni dal 2005 al 2015).
Quest’ultima oppone ricorso formulando la seguente motivazione: la pronunzia della Suprema Corte invocata dal lavoratore riguardava l’iscrizione all’albo professionale di un avvocato dipendente di ente pubblico, la cui posizione non era assimilabile a quella dell’infermiere; evidenziava che infatti, alla luce della disciplina legislativa e contrattuale, per gli infermieri il vincolo di esclusività era temperato dalla possibilità di svolgere prestazioni professionali presso terzi
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Il Giudice di primo grado nell’accogliere le motivazioni della Azienda sanitaria, revocava il decreto ingiuntivo. Spinto da ulteriori pareri positivi, l’infermiere proponeva appello, ribadendo la sua impossibilità a svolgere attività lavorativa in strutture sanitarie private o accreditate.
L’insistenza dell’operatore sanitario era giustificata e motivata da precedenti a lui favorevoli.
Nello specifico l’argomentazione portata in aula riguardava una sentenza della Corte di Cassazione (n.7776/2015) guidata da un parere del Consiglio di Stato (15/03/2011 n. 678/2010): quando sussista il vincolo di esclusività, l’iscrizione all’Albo è funzionale allo svolgimento di un’attività professionale svolta nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente, pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività, che dovrebbe, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere altre attività lavorative, gravare sull’Ente che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività
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Purtroppo, la Corte d’appello di Salerno, sezione lavoro, con sentenza n. 1012/2019, conferma la conclusione del primo grado di giudizio, sostenendo che la posizione dell’infermiere non è assimilabile a quella dell’avvocato, in quanto l’esclusività del rapporto lavorativo instaurato con la ASL non preclude l’espletamento eventuale di altre attività, visto che esso è temperato dalla possibilità – prevista dal CCNL di settore – di svolgere prestazioni a favore di soggetti pubblici e privati, prestazioni aggiuntive e in equipe, fuori dall’orario di lavoro e con ripartizione del compenso. Ne consegue che, (omissis) il suo rapporto di lavoro è regolato da disposizioni che gli consentono di espletare attività aggiuntive rispetto alla ordinaria prestazione lavorativa svolta per la ASL. L’iscrizione all’albo professionale degli infermieri, pertanto, non avviene nell’interesse esclusivo del pubblico datore di lavoro, rappresentando invece il presupposto per l’accesso da parte del lavoratore ad ulteriori opportunità professionali
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Gli addetti ai lavori hanno immediatamente notato l’infondatezza di quanto sopra affermato. Già l’articolo 98 della Carta Costituzionale statuisce che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, principio che viene supportato dal cosiddetto dovere di esclusività contraddistinto dai principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa così come recita l’art. 97 della stessa Costituzione.
Tralasciando alcuni precedenti legislativi, tutti in linea con “l’esclusività del rapporto nel pubblico impiego” e in gran parte difformi dal parere dei giudici in questione, concentriamo la nostra attenzione sulla legge n.1, 8 gennaio 2002, unico possibile - ma non adeguato - riferimento favorevole ad una qualche forma di attività ulteriore per i dipendenti pubblici. In particolare, il primo articolo prestazioni aggiuntive programmabili da parte degli infermieri dipendenti ed emergenza infermieristica
al comma 3 ammette a svolgere prestazioni aggiuntive gli infermieri e i tecnici sanitari di radiologia medica dipendenti della stessa Amministrazione, in possesso dei seguenti requisiti:
- Essere in servizio con rapporto di lavoro a tempo pieno da almeno sei mesi
- Essere esenti da limitazioni anche parziali o prescrizioni alle mansioni come certificate dal medico competente
- Non beneficiare, nel mese in cui è richiesta la prestazione aggiuntiva, di istituti normativi o contrattuali che comportino la riduzione, a qualsiasi titolo, dell’orario di servizio, comprese le assenze per malattia
Il successivo comma 4 identifica il setting assistenziale dove svolgere tali prestazioni aggiuntive: reparti di degenza e attività di sale operatorie.
Contestualizzando la legge in questione, l’intento del legislatore era rappresentato dal dover risolvere la cronica carenza di personale infermieristico, favorendo procedure più snelle al fine di reclutare velocemente operatori sanitari. Tra l’altro le prestazioni aggiuntive venivano e vengono realizzate comunque per un unico datore di lavoro e non certo verso terzi. E non potrebbe essere diversamente, visto che il Testo Unico sul Pubblico Impiego (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165) all’articolo 53, recependo anche il concetto di “incompatibilità” (normato dall’articolo 60 del DPR n. 3/1957) ascritta all’impiegato di un pubblico esercizio, sostiene fortemente il vincolo di esclusività per tutti i dipendenti pubblici, salvo lo svolgimento di incarichi retribuiti conferiti da altri soggetti, pubblici o privati, purché autorizzati dall’amministrazione di appartenenza.
Ecco quindi dimostrata la contraddittorietà della sentenza in commento.
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