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8 marzo

So solo che era maschio

di Redazione

Rumori. Lontani, quasi soffocati, difficili da definire. Apro gli occhi per capire, ma tutto è buio. Allora chiudo gli occhi, li strizzo forte e li riapro, piano. Forse adesso sarà più facile. Sì, ma cosa è adesso. Sento la testa stretta in una morsa di una realtà che non riesco a percepire. La testa è dolente, come se qualcuno provasse a spremerla da ogni direzione. Non è un dolore fisico. È diverso. È di più. Forse è questo ronzio che non mi permette di concentrarmi. È sempre buio. Una sottile C quadrata e pallida comincia a farsi nitida davanti a me, a pochi metri. Sì, ecco, è una luce che filtra da una porta.

Capisco che sono dentro a qualcosa di stretto e lungo, e buio

donna violentata

Lo scorso gennaio, ad un questionario somministrato al personale sanitario del Sant’Orsola di Bologna, su 130 interessate ben 53 donne hanno risposto di aver subito molestie.

Lo sgabuzzino, no? No! Questo è il magazzino. Sono dentro il magazzino di reparto. Sì, deve essere così. Ecco, riprendo coscienza di adesso, di prima, di tutto. E la memoria sale con il sapore metallico che mi ritrovo in bocca e un dolore sempre più insistente alla spalla destra e la sensazione di galleggiare in qualcosa di viscido, schifoso, fatto di un vapore che ti risucchia l’aria e non ti lascia respirare, e toglie il fiato.

Ora, adesso. Sì, adesso so cosa è adesso, è il momento che non riesco a respirare, che il dolore alla spalla destra si fa più acuto ed il sapore di metallo in bocca si presenta per quello che è: sangue.

Mi sono appoggiata sulla maniglia della porta con tutto il peso del mio corpo. La mano, debole e tremante, non riusciva ad avere una presa valida. Ora che sono in piedi mi accorgo che mi manca una scarpa. Dalla porta appena aperta, filtra la luce sufficiente per farmela ritrovare. Giro il capo e guardo la scaffalatura di metallo dove sono ordinati i farmaci, le flebo e i materiali per tante altre cose.

Trovo la scarpa. È infilzata fra due scatoloni di siringhe posati in terra. La spalla continua a dolermi, ma il sapore del sangue in bocca è quasi scomparso a furia di ingoiare saliva che non ho. La testa è sempre più stretta ed il ronzio, man mano che la luce mi attraversa, si fa più insopportabile. Sono quasi fuori dalla stanza.

Sento le gambe molli, pronte ad abbandonarmi, a tradirmi. Anche loro. Sono certa che fra poco cadrò in terra, ma non deve accadere. Non posso permettermelo. Potrei urlare per chiedere tutto l’aiuto enorme di cui ho bisogno. Ma non voglio. Non deve accadere, non posso permetterlo. Ce la devo fare a tutti i costi.

Un passo, un altro, un altro ancora. Sono fuori dalla stanza. Mi appoggio alla parete. Vorrei urlare, svenire, cadere in terra. Piangere e rompere tutto! Vorrei lasciarmi andare per perdermi e non tornare più. Ma non posso permettermelo, perché ora so qual è il mio adesso.

Ora ricordo. Come è accaduto non è ben chiaro

Alle spalle, forse. Ricordo che sono entrata nel magazzino, che dovevo prendere un paio di scatole di medicine ed ho sentito qualcosa. Appena un rumore, indefinito, ma sapeva già di cattivo. Qualcosa. Anzi qualcuno, che mi ha spinta in avanti.

Non ho fatto in tempo a reagire che “tlack”, la porta si è chiusa e poi due giri di serratura e poi una mano mi ha preso la faccia e l’ha girata. Due dita sugli zigomi e il palmo che premeva la bocca impedendomi di respirare, di capire, di parlare. Di urlare. E poi il suo fiato pesante sul viso che annunciava l’arrivo di qualcosa.

Qualcosa che tocca, che palpa, che fruga, che preme, che stringe. Qualcosa che stringe forte e sposta, sfila, toglie, strappa. Qualcosa che fa male prima che faccia male. Il mio corpo è stato pressato, schiacciato, ridotto a niente. Violato.

Il dolore alla spalla destra ora insorge e disegna il ricordo di una Me affogata sul fondo di una stanza nera, su qualcosa che spunta fuori da uno scaffale. Qualcosa di stretta su una superficie irregolare, non prevista. Un ostacolo alla normalità incapace di fermare l’anormalità. Ho provato a parlare. Sì! Ho provato, ma le parole sono affogate nella forza e sono tornate indietro, e mi hanno fatto mordere il labbro. O la sua mano.

Non so. Il sapore del sangue in bocca lo avrei sentito solo dopo. Non so quanto dopo, ma dopo. Il resto è come se fosse accaduto ad un’altra persona, altrove.

Una parte di me s’era già distaccata. Non mi apparteneva più. Non la sentivo più. Il vapore vischioso che l’avvolgeva e l’attraversava era lontano dalla mia mente, anche se mi tirava giù, verso un orrido infinito, sempre più giù, in un nulla violento da cui non mi sarei mai più liberata. Poi, non so quanto “poi”, ho aperto gli occhi sul buio.

Quindi non saprebbe dire chi è stato? Un collega o un paziente, un tirocinante o uno specializzando? Oppure un superiore, un medico? Un visitatore? Un familiare non sarebbe improbabile. Qualcuno di un altro reparto, che so… un inserviente, un Oss, o un tecnico. C’è qualcuno che le aveva fatto qualche pressione particolare? Molestie, avance, stalkeraggio di vario tipo? Insomma, un’indicazione ce la deve pur dare. Deve pur aver una minima idea di chi l’ha…

Ora non ricordo bene. Mi fa male la spalla destra. Non ricordo e di Lui so solo che era maschio.

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