Palazzina X. Ultimo piano. Stanza 21. Eccomi qui, in attesa per la visita presso il servizio di medicina preventiva della mia azienda. Di fianco a me una collega con un faldone di carte parla da sola: Adesso basta. Sono stanca di sollevare pesi e fare le notti!
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Non è mai stato facile, ma ho sempre cercato di sfidarmi
Anch’io porto una cartella modello “sanremo” in cui sono raccolti i referti delle visite e le liberatorie degli ultimi anni per poter continuare a fare il mio lavoro.
Perché è proprio così: per continuare a fare il mio lavoro, a fare quello che mi piace e per cui ho studiato non è detto che abbia il nullaosta del medico competente. E allora, come le volte scorse, proverò a fargli capire che la mia malattia è ben gestita da un team multidisciplinare di professionisti (infermieri, fisioterapisti, ortopedici, ematologi, fisiatri, dietisti).
Andando indietro nel tempo, la mia vita lavorativa è sempre stata così: ogni tanto compare un medico che non vuole prendersi la responsabilità di farmi lavorare come gli altri per “tutelarmi” e allora io faccio di tutto, perché capisca che in questo modo non lo sta facendo.
Ricordo la visita che feci a 17 anni. La commissione si era riunita per decidere se potevo lavorare oppure dovevo essere “mantenuto”; a un certo punto il presidente urlò verso mia madre: Signora, ma si rende conto che suo figlio non può lavorare come gli altri? Se si fa male, chi si prende questa responsabilità?
facendola piangere. Lei, che ha fatto sempre di tutto per crescermi come i miei coetanei, a volte facendomi fare di più dei miei stessi compagni, trattata in quel modo. Un’esperienza traumatizzante!
Da quel momento mi sono sempre impegnato al massimo facendo il doppio di quello che fanno i miei colleghi per dimostrare non che sono più bravo degli altri, ma sono come gli altri.
Non è stato facile, non lo è mai stato
Quando nel 2004 mi sono trasferito a B. per iniziare gli studi accademici, nella facoltà che avevo scelto vigeva ancora l’ideale del professionista perfetto, senza imperfezioni e ligio al dovere ed alla disciplina. Ora, per le ultime due caratteristiche nessun problema, ma per la prima? È stato allora che ho iniziato a stare in silenzio, nascondendo la mia malattia e infondendomi tutti i giorni nel mese in cui ho svolto il primo tirocinio (maggio 2005). I tre anni di università sono stati pesanti mentalmente e fisicamente però alla fine mi sono laureato, ma non solo. Il giorno della discussione della tesi, parlando dell’assistenza ai pazienti con la mia stessa malattia, ho fatto apparire una foto in cui comparivo anch’io in mezzo ai miei amici suscitando notevole sgomento tra i miei tutor universitari, ormai consapevoli che non potevano più fermarmi.
Nel 2008 sono stato assunto in un’azienda pubblica, ma, invece di sottopormi alla solita visita medica di idoneità alla mansione, i dirigenti aziendali decisero di impormi anche lo svolgimento di un’ulteriore visita per verificare se potessi effettivamente lavorare.
Era fine luglio. Faceva caldo. Un caldo umido che puoi sentire solo in questa città.
Entrai con il mio faldone di carte nella stanza in cui due medici sembravano attendere solo me. Loro iniziarono a consultare tutta la documentazione e io ad aspettare. A un certo punto uno dei due alzò gli occhi per scrutarmi e mi disse: Capisce bene che noi non possiamo metterla in un reparto di chirurgia. Se si taglia con un bisturi o con un ago poi non smette di sanguinare!
. Dopo questa affermazione avrei voluto solo andare via. Invece, con una calma che non è da me risposi: Vi invito a riflettere su una cosa. Sono della classe 1985, cresciuto con persone che convivono con le 5 H (Hiv, Hbv, Hav, Hcv, Haemophilia), i miei genitori hanno fatto di tutto per tutelarmi ed evitarmi il contatto con uno di questi virus e secondo voi mi devo andare a tagliare con un bisturi? Se un collega che ci lavora ci sta attento 10 volte, io ci sto attento 10 volte di più!
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Idoneo senza limitazioni! La prima battaglia era vinta! Adesso toccava a quella di idoneità alla mansione. Anche quella è stata impegnativa; il medico mi disse che per il lavoro che dovevo svolgere lui mi dava piena idoneità ma che se avessi cambiato reparto per andare uno che lui riteneva più impegnativo non mi avrebbe autorizzato. Per il momento mi andava bene così.
Il 1° settembre del 2008 è iniziata la mia carriera lavorativa a B. Per il periodo ero un’eccezione della mia generazione: a soli 23 anni avevo già un posto pubblico a tempo indeterminato. Ma dopo un po' in reparto ho iniziato a stare male. Non fisicamente, ma mentalmente; mi sentivo, a detta dei miei stessi colleghi, un leone in gabbia
. Allora ho ricominciato a studiare: per un anno sono andato avanti e indietro da E. cercando di affinare le mie conoscenze e le mie competenze professionali.
È stato un periodo molto impegnativo, ricco di esperienze interessanti e divertenti, ma anche di momenti di profondo sconforto. Alla fine, nel 2011, arrivò la tanto agognata mobilità: destinazione V., a 20 chilometri da B. Via da tutto e da tutti.
Ricominciava una nuova vita. Quattro anni bellissimi, in cui ho avuto modo di creare tante splendide e durature amicizie e di poter maturare molto (sempre di più rispetto alla mia età). Le successive visite mediche non sono state un problema, perché il medico incaricato di farle si è dimostrato sempre attento e diligente, non spaventato.
Dopo un po' però la mia testa era da un’altra parte. Ogni volta che sentivo un rumore familiare alzavo lo sguardo verso il cielo e per cercare un puntino giallo, che andava in giro soprattutto e tutti. Era giunto il momento di tornare a B.
Nel novembre del 2015 è incominciata un’altra avventura, completamente nuova, in cui ho dovuto rimettermi in gioco imparando tante cose, confrontandomi con professionisti nati in quel posto e cercando di condividere la mia poca esperienza con i nuovi colleghi. Da qualche mese lavoro anche su quel puntino giallo che vedevo da terra.
Questo breve excursus mi ha permesso di ricostruire gli ultimi anni lavorativi. E dal punto di vista personale?
Ho sempre cercato di sfidarmi provando ad andare oltre i limiti che questa malattia comporta, soprattutto negli ultimi anni
Almeno una volta all’anno, insieme a F., saliamo fino a 2.000 metri di altitudine per staccare dal caos di ogni giorno. Lo scorso anno ho provato a percorrere la via delle Divinità, ma mi sono dovuto fermare dopo il primo giorno e 24 km di strade sterrate (un viaggio che mi ha aiutato a riconoscere i miei limiti), mentre quest’anno ho percorso più di 90 km a piedi in giro per B.A. Niente male per uno a cui hanno consigliato di posizionare una protesi di caviglia nove anni fa. E ora sono qui, in attesa di sapere cosa vogliono fare di me; la collega che prima mi era accanto è uscita. Il medico è quello del 2008.
Inizia una nuova battaglia! A proposito, non mi sono ancora presentato: mi chiamo A. e sono un infermiere specialista assistente di volo sanitario, emofilico A grave.
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