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Io infermiera nel centro di primo soccorso per immigrati

di Redazione

Mariagiovanna Piccolo è una giovane infermiera. Lavora come libera professionista in un centro di primo soccorso per immigrati (Cpsi) a Messina, nella caserma militare Gasparro. Questa è la sua storia e quella di migliaia di persone che affrontano il mare, con la speranza negli occhi di una vita diversa. E spesso non per scelta.

L’infermiera nel centro immigrati: Qui ho imparato la relazione umana

Arrivai in caserma, armata delle mie conoscenze e competenze professionali acquisite all’università, accompagnata dalla fervida e superficiale convinzione che gli stranieri di varia nazionalità, fuggissero volontariamente, verso l’Italia, per sottrarsi a un destino di fame e povertà, in cerca di un futuro sereno da poter offrire a loro stessi e anche ai loro figli. Toccante, indescrivibile e indimenticabile è la storia di un giovane, che quel giorno si presentò di fronte alla mia scrivania.

Il ragazzo in fiamme che continuava a correre

Era un ragazzo di circa 30 anni con ustioni di terzo grado estese nel 70% del corpo. Il suo viso non aveva più le caratteristiche di un volto umano, le sue palpebre ormai cicatrizzate rimanevano perennemente aperte, del suo naso rimanevano identificabili solo le narici e i suoi padiglioni auricolari erano pressoché inesistenti, rimaneva soltanto il condotto uditivo esterno visibile e la funzione uditiva era garantita solo dall’orecchio destro, Altre ustioni cicatrizzate e alcuni segni d’infezione, completavano il quadro desolante. Chiesi all’interprete cosa fosse accaduto.

Lo straniero, piangendo, raccontò la sua storia e quella degli altri migranti. Mi disse che tutti i migranti che arrivavano al Cpsi, erano stati imprigionati in Libia da un esercito “cattivo”. Ancora oggi i militari di tale esercito, i cosiddetti “Asma boys” sequestrano uomini, donne e bambini, esercitando continue torture e violenze sessuali. Solo dopo il riscatto in denaro da parte delle famiglie dei sequestrati, vengono imbarcati sui gommoni, senza conoscere il loro destino e la loro destinazione, ovvero, l’Italia.

Presi consapevolezza del fatto che in quei Paesi, era in atto un nuovo olocausto

Lui si era allontanato dalla sua famiglia in Nigeria, senza aver scelto con precisione la sua meta, la sua priorità era trovare un lavoro che gli permettesse di vivere. Dopo un lungo viaggio, arrivò in Libia, di notte. Si sdraiò sotto un albero per riposare, all’improvviso due uomini armati di mitra, lo svegliarono e lo portarono in prigione. La prigione era un piccolo locale angusto, dove donne e bambini erano vittime di abusi sessuali e talvolta venivano abusati anche uomini. In quel locale putrido, venivano sfamati con un tozzo di pane, bevevano acqua sporca, a volte per sete bevevano le proprie urine. Pochi riuscivano a sopravvivere. Il suo ultimo giorno di prigionia, mi raccontò, che venne disposto in fila con altre otto persone, che come lui non avevano una famiglia che potesse pagare il prezzo per la loro libertà. Un Asma boy puntò il fucile contro di loro e iniziò a sparare, uccidendoli uno per uno, lui vide i corpi dei suoi compagni di sventura accasciarsi al suolo e iniziò a correre. Gli Asma boys lo inseguirono, lo cosparsero di benzina e lo bruciarono. Ma, nonostante il suo corpo fosse avvolto dalle fiamme, continuò a correre, fin quando raggiunse una moschea. Lì, ricevette asilo religioso e vi rimase un anno per non essere nuovamente catturato. Faceva piccoli lavori. Alla fine l’imam pagò l’intera somma per permettergli di espatriare in Italia su un gommone.

Mi sembrava di assistere alla trama di un film horror. Lo medicai con attenzione. Cercai di rassicurarlo nei momenti più emozionanti del suo racconto, lo ascoltai con interesse, gli somministrai la terapia finché rimase li. Tre giorni dopo venne trasferito in altro centro e mi salutò dicendo: “Nurse, you are my heroine and I will always remember your sweetness. You cured the wound of my soul, thank you very much” (Infermiera, tu sei la mia eroina e ricorderò sempre la tua dolcezza. Hai curato le ferite della mia anima, grazie tante).

In quel momento compresi quanto fosse fondamentale creare una relazione d’aiuto con i pazienti e quanto fosse importante per loro essere ascoltati.

Oggi mi occupo di somministrare ai pazienti la terapia prescritta dal medico ed effettuare le medicazioni necessarie. Dedico almeno un’ora al giorno, per ascoltare con l’aiuto dell’interprete le storie strazianti di questi poveri sventurati. Cerco di strappare qualche sorriso, di rassicurarli con dolcezza e professionalità, di alleviare le loro sofferenze. Ogni giorno mi rapporto con i miei colleghi a ogni cambio turno, per confrontarmi con loro sui problemi riscontrati e le migliori modalità per poterli risolvere, nei limiti delle nostre competenze, raccomando a loro e agli operatori di rivolgersi sempre con gentilezza e di essere disponibili nei loro confronti.

Con il dialogo, riusciamo a far tesoro delle nostre esperienze e a fornire un’assistenza sanitaria di qualità superiore

Affrontiamo meglio il nostro lavoro e cogliamo soddisfazione tutte le volte che riusciamo ad alleviare le sofferenze dei pazienti.

Direi che questo metodo, migliora anche la nostra professionalità. Sulle loro odissee vorrei scrivere un libro. Ascoltare ogni giorno le loro esperienze drammatiche, non mi fa paura, anzi, mi esorta a studiare per essere professionalmente più preparata e per poter assistere le persone con standard superiori a quelli raggiunti fino adesso, e vivo col desiderio di potermi dedicare anche al campo della ricerca in ambito infermieristico.

Mariagiovanna Piccolo, infermiera

Le foto dell'articolo sono di proprietà di Sos Méditerranée

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