A distanza di 22 anni solo due cose posso fare in questo giorno
Ground Zero, memoriale di cordoglio dedicato alle vittime dell'11 settembre.
Ricordare e non dimenticare , con una poesia della Szymborska. Dicono che tutte le persone che hanno visto in mondovisione l'11 settembre ricordano ancora perfettamente quel che stavano facendo alle 8.45 e alle 9.03, ora di New York, quando i due aerei dell'American Airlines sono stati lanciati contro le Twin Towers.
Di quel luogo oggi è rimasto solo un posto chiamato Ground Zero , una profonda voragine nella terra e nel dolore su cui hanno edificato un memoriale di cordoglio dedicato alle migliaia di vittime di un unico istante. Anche oggi, come ogni anno, un nome sarà chiamato con il suo nome. Suonerà un campanello. E una rosa bianca, fresca, sarà posata sul granito tra le lacrime, che gli occhi di chi ha amato non sono asciutti mai.
Di 11 settembre si continua a morire anche dopo 22 anni. Il corpo dei Vigili del Fuoco di New York ha aggiunto nel 2023, ai 55 già presenti sul World Trade Center Memorial Wall, altri 43 pompieri deceduti per malattie letali dopo aver inalato i fumi tossici tra le macerie contaminate, mentre andavano cercando resti di persone tra la polvere cancerogena. La vita alla fine presenta il conto in termini d salute quando per istinto ed eroismo, abnegazione e senso del dovere, si compiono atti che si definiscono eroici ma che sono in fondo soltanto umani ed umanitari.
Alla vigilia della commemorazione i medici legali hanno annunciato che sono state identificate altre due persone, un uomo e una donna, tra coloro che risultavano ancora tra i dispersi. Dare un nome a qualche resto di DNA, grazie a test scientifici avanzati, è tutto ciò che si può e si deve fare per dare dignità e sepoltura ai morti, anche a distanza di tempo. Anche se non si tratta di una salma ma è soltanto una traccia di sostanza organica. Significa onorare la memoria di qualcuno che è stato, un tempo, creatura vivente e persona umana. L'uomo lo deve all'uomo, non soltanto per questioni legali.
Mentre la città americana si svegliava, dall'altra parte del mondo io stavo semplicemente cercando di addormentarmi, erano passate da pochi minuti le 13.45. Dopo il turno del mattino ed aver consumato un pasto frugale – che la stanchezza mi aveva fatto venire la nausea - volevo prendere sonno qualche ora per essere riposata per il turno di notte .
Era l'ultimo tirocinio del primo anno di Infermieristica . Stavo spegnendo la televisione quando mi sono imbattuta per caso in un video senza audio del tg2. Aria grigia. Torre grigia. Fumo grigio. Attorno si sentiva il silenzio di un cielo attonito. Nessun cronista commentava quel che stava capitando, era troppo presto. L'orrore era solo all'inizio, appena consumato, sospeso in un'atmosfera di attesa. Non era compiuto. Quella mutezza era inquietante, preludio di notizie peggiori. L'evento si raccontava da solo con la forza delle immagini.
Una Torre fumava. E basta. Ho visto il secondo aereo in diretta
Fuori dallo schermo, sotto le torri sui marciapiedi i newyorkesi erano a testa in su, tra i My God e le Avenue, le uscite delle metropolitane e le notizie dal Pentagono e da Pittsburg. Quando le torri sono crollate siamo crollati tutti, in fondo. Insieme alle 2977 persone intrappolate dentro, sono collassate la pace, la sicurezza, l'umanità, la libertà, l'ordine e il senso del mondo come lo avevamo costruito dopo la seconda Guerra Mondiale.
Sono 411 i pompieri, i medici, i poliziotti e gli infermieri del 911 che sono morti dopo essere accorsi sul luogo del disastro, in tempo per l'epilogo. Erano centinaia le ambulanze, le autopompe e i soccorritori, sanitari e non, mandati al fronte, nel cuore di una città colpita. Cosa potevano fare di fronte ad un'emergenza del genere? Salire, soccorrere, salvarne anche uno solo. Portarlo giù in tempo, prima che tutto finisse in una gigantesca nuvola di polvere, ossa, fuoco, sangue, fogli di carta, urla strazianti.
Portare in ospedale i feriti, i sopravvissuti, i traumatizzati dallo shock. Migliaia di persone sono state inseguite e ricoperte per isolati da una polvere gialla, respirando sostanze inorganiche ed organiche. Calcestruzzo e corpi umani. Quando rivedo i filmati e i documentari su quel giorno, penso sempre agli ospedali newyorkesi e a quello che devono aver vissuto. Lì le telecamere non sono entrate. Nessuna organizzazione sanitaria, per quanto efficiente e preparata ad affrontare disastri, può essere pronta, anche con il miglior Piano, a sostenere un simile impatto umano ed ambientale. Imprevedibile, impensabile. È stata la maxiemergenza più grande che ci sia mai stata.
In cinquant'anni di vita mi rendo conto di aver vissuto due eventi traumatici planetari. La pandemia è il secondo. Allora, come studentessa di una professione sanitaria, quando l'empatia della giovinezza era alle stelle. Oggi, come infermiera, quando l'empatia ha messo radici ma si mette anche distacco. In ogni caso, come persona tra le generazioni viventi in cui ciascuno hai i suoi gradi di sensibilità, di separazione, di dimenticanza, di ricordanza.
Comunque si viva e si percepisca un trauma se ne esce cambiati
Ricordo che dalle 21 alle 7 del mattino successivo il tempo trascorso nel reparto di Medicina è stato surreale. Il mondo era sconvolto da poche ore ma negli ambienti di cura tutto continuava come se niente fosse successo. L'assistenza infermieristica procedeva come un giorno di un mondo normale. La mia formazione non si era fermata. Ricordo di essere stata perplessa per il fatto che gli infermieri di quella notte non parlassero affatto di quel che era capitato.
È questo che fanno gli infermieri, restano imperturbabili e concentrati sulle loro attività? Davanti ad un tè in cucina in un momento di pausa, nessuno accennava un discorso. Ho cercato di dare il la, hanno cambiato argomento. Chiacchieravano di leggerezze. Ignorare, quando tutto si fa più grande e ci sentiamo impotenti, è un altro modo di affrontare lo stress? Mi sentivo scossa .
Avevamo visto tutti degli uomini lanciarsi nel vuoto. Come sanitari potevamo intuire poi il lavoro immane, disperato ed inutile di fronte all'immensità della calamità, dei soccorritori. Irrequieta cercavo qualche fonte di aggiornamento, mi capita ancora. Pareva la fine del mondo o l'inizio di una guerra mondiale, tale era la portata dell'evento. Senza essere politologi si capiva che finivano comunque i giorni come li avevamo vissuti sino ad allora. Le gravi conseguenze a livello globale non sono poi tardate.
Tremavo dentro per l'indignazione, la paura e la mancanza di notizie . Nessuno accendeva la tv, ventidue anni fa i cellulari telefonavano e mandavano sms soltanto. Trovavo sconvolgente ed irreale il silenzio degli infermieri, in quel turno di notte lontana, a cose fresche. Che poi la notte tutto appare distorto o ovattato, ci si sente lontani ed estraniati soltanto per il fatto di essere svegli in un ospedale che non dorme mai. Come la Grande Mela. Sembravano indifferenti, noncuranti, non affatto curiosi di sapere quello che avveniva fuori. Come se tutto il loro mondo fosse racchiuso nel nosocomio. Come se la ripetizione di gesti sanitari abituali desse loro tranquillità.
Erano forse più adulti e maturi, rispetto ai miei vent'anni? Si comportavano come se fosse stato un attentato qualsiasi in una terra lontana, che non toccava loro più di tanto. Hanno continuato con campanelli, giro letti, cambio pannoloni, padelle, terapie. Tutto qui. Dopo i prelievi e le consegne al cambio turno, una volta libera sono fuggita a respirare nel giardino dell'ospedale l'aria del 12 settembre.
Io ricordo benissimo, come un Day After, anche il 12 settembre, quella sensazione mi è rimasta addosso e probabilmente la ricorderò anche domani. Mi sono chiesta come si potesse restare silenziosi. Avevo voglia di urlare. Ho guardato i telegiornali per giorni interi, perdendo il sonno. Non ho sentito riflessioni nei turni successivi, allora. Come da oltre un anno non sento parlare in corsia della guerra in Ucraina e del fenomeno migratorio. Si parla di lavoro. Di ferie. Di famiglia e di fatti propri. Ci sono altre cose serie, oltre ai malati e alle malattie. Magari non se ne parla tra noi, mi chiedo perché, ma se ne parla fuori con qualcun altro.
Di quel giorno, la poetessa polacca Wislawa Szymborska ricorda, come me, soprattutto gli uomini che si gettano dalle finestre. Sono saltati giù dai piani in fiamme. Io mi sento ancora schiantare a terra con loro, ad ogni 11 settembre. Dopo vent’anni da infermiera, realizzo amaramente che sono molti i colleghi che non parlano di politica e dei grandi fatti della storia dei nostri giorni. Che non esprimono un parere, che non sanno o non vogliono raccontare quel che sentono, che non si lasciano apparentemente toccare dalle tragedie dell'umanità.
Forse lo fanno per non lasciarsi travolgere dall'empatia, per restare lucidi nell'esercizio del loro lavoro. Per non esserne distratti, rimanere concentrati. Forse con il tempo si diventa più duri, tragedia dopo tragedia. Si impara a non far entrare dentro alla nostra zona di comfort tutto ciò che ci può inquietare, oltre il lavoro. Come si lasciano a casa i problemi personali ogni qualvolta si varca la soglia del reparto.
Tuttavia, penso che non ci siano cose troppo grandi di cui come persone, e come professionisti, non ci si possa fare carico. Gli orrori del mondo sono un peso. La professione d'aiuto che abbiamo scelto ci impone di conoscere molto più dell'infermieristica così da saper sostenere lo sguardo, facendovi fronte, davanti a qualsiasi calamità succeda ovunque nel mondo. E di non restarvi almeno distanti con il cuore, se il lavoro ci tiene ancorati dove siamo.
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