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teatro sociale

Il corridoio per la sala operatoria diventa un luogo d'arte

di Daniela Berardinelli

Il corridoio delle sale operatorie dell'Ospedale Mauriziano di Torino è stato ridisegnato e umanizzato dagli stessi dipendenti operatori sanitari tramite un progetto di teatro sociale e di comunità.

Intervista a Giuseppe Fiumanò, l’infermiere che ha diretto il progetto a Torino

L’umanizzazione dei luoghi di cura quindi è non solo possibile, ma auspicabile. Abbiamo intervistato Giuseppe Fiumanò, infermiere e operatore di teatro sociale e di comunità, che ha diretto il progetto dell’Ospedale Mauriziano di Torino.

Giuseppe da cosa nasce questo progetto?

Nasce da un momento tragico, da una perdita di una carissima collega che ha sconvolto tutti, un gruppo di circa 150 persone che lavora in sala operatoria, e dall’emergere della consapevolezza del bisogno di prenderci cura di noi. I medici, gli infermieri, i chirurghi, gli anestesisti, gli strumentisti, che hanno come mandato istituzionale quello di prendersi cura degli altri, hanno scoperto che era necessario prendersi cura anche di loro stessi, come professionisti e come persone. L’idea iniziale è stata quella di cominciare a prenderci cura del nostro luogo di lavoro, perché questo significava prendersi cura al contempo di noi e dei nostri pazienti. In effetti, se ci pensiamo bene, quando si va a casa di qualcuno la prima cosa ad accoglierci è il corridoio di ingresso. E il corridoio che conduce alle sale operatorie era un luogo abbastanza trascurato, brutto che veniva percorso tutti i giorni sia in entrata che in uscita da noi operatori e da tutti i pazienti in preda all’ansia di un imminente intervento ed immediatamente post. Il passaggio successivo è stato quello di selezionare il personale che avesse voglia di partecipare a questo progetto. Hanno risposto 15 persone, abbiamo così costruito un’équipe multidisciplinare, che includeva personale sia sanitario (infermieri, oss, medici, anestesisti, strumentisti) che amministrativo e insieme abbiamo lavorato e creato questo progetto di teatro sociale e di comunità.

Da chi parte l’idea?

L’idea nasce da me, non come contenuti, ma come percorso che poi è stato condiviso. Il gruppo di lavoro si è occupato di studiare lo spazio architettonico del corridoio sfruttando il valido aiuto di una collega infermiera, che possiede anche la formazione di architetto, e questo progetto è stato un’occasione per usufruire e dare valore alla sua doppia competenza. Lo spazio del corridoio è lungo, stretto, ha sei pilastri che costeggiano i muri e da un lato giunge la luce. Questi pilastri sono stati pensati come degli elementi architettonici da mettere in risalto e la simbologia scelta è stata quella di trasformarli in dei tronchi d’albero da cui partissero dei rami. Lo step successivo è stato la scelta del colore, le sfumature utilizzate sono state quelle dell’azzurro, del blu e dell’arancione.

Tutte le volte che percorriamo questo corridoio possiamo salutare la nostra collega ancora una volta

La cromoterapia suggerisce che i colori possono influenzare il nostro umore. L’azzurro e l’arancione sono due colori complementari e insieme risaltano maggiormente, il primo è un colore dalle proprietà rilassanti, serve ad accogliere chi entra al lavoro al mattino, chi sta per iniziare una giornata impegnativa e allo stesso tempo anche il paziente con il suo carico d’ansia per l’intervento. L’arancione è invece un colore attivante ed è stato pensato per chi esce dalla sala operatoria, per ripristinare le sue funzioni vitali. Lo spazio voleva essere ancora più accogliente, quindi oltre alla simbologia delle forme e dei colori, la chioma di quegli alberi doveva poterci rappresentare e accogliere i nostri pazienti in un corridoio non solo colorato, ma anche con qualcosa di nostro. Abbiamo scelto quindi di scattare delle foto che potessero esprimere chi siamo, cosa facciamo e soprattutto comunicarlo ai pazienti. Su questo muro sono appesi 12 quadri fotografici di cui tre raffigurano i nostri volti. Queste foto sono l’immagine condivisa e condivisibile che il gruppo ha scelto per presentarsi ai propri pazienti e per esprimere se stessi. Abbiamo voluto presentarci con i nostri volti e al contempo fare memoria della nostra collega che non c’è più, per questo motivo la sua foto è inserita accanto alle nostre, così, simbolicamente parlando, tutte le volte che percorriamo questo corridoio possiamo salutarla ancora una volta. Questo progetto ha rappresentato un momento catartico per il gruppo e ci ha permesso di superare quella fase critica trasformandola in una creativa e questo per noi ha rappresentato la rinascita.

È stata, si può dire, una prova di resilienza

Sì, il concetto di resilienza esprime pienamente il nostro percorso.

Perché possiamo parlare di teatro sociale e di comunità?

Perché questo progetto è stato scritto secondo la metodologia del teatro sociale e di comunità. Questo corridoio è in realtà un atto di rappresentazione, rappresentare in teatro vuol dire “portare a presenza” e qui si porta a presenza quell’arte antica e necessaria del prendersi cura. Noi ci siamo presi cura di uno spazio trascurato, d’altronde facciamo questo di mestiere, ci prendiamo cura degli altri e in questo prendersi cura ci siamo noi, lo spazio che ci circonda e i nostri pazienti. In questo spazio abbiamo costruito una scena teatrale, in teatro da sempre tutto quello che compone la scena non è mai semplice abbellimento e qui non abbiamo solo fatto un lavoro estetico, ma costruito una scena teatrale per rappresentare l’arte del prendersi cura. Tutto quello che abbiamo rappresentato doveva rispondere a una precisa domanda che in teatro ci si pone sempre quando bisogna costruire una scenografia, ovvero: tutto quello che compone questa scena, lo spazio, la luce, gli oggetti, cosa suscitano in chi li guarda? Chi attraversa questo corridoio che esperienza fa e quale vorremmo noi facesse? Noi abitiamo questo spazio, ma quel luogo prima di tutto abita dentro di noi, prima quel corridoio trascurato ci faceva avvertire delle sensazioni, ora delle altre e le risposte le abbiamo ricevute anche dai pazienti che hanno espresso frasi come “mi sento più sereno”, “mi sento accolto”, “mi dà gioia passare attraverso questo corridoio”, ”mi dà tranquillità”. Quello che noi abbiamo fatto come gruppo è stato un processo artistico partecipato dove i linguaggi sono stati i colori, le forme e la fotografia.

Quanto tempo avete impiegato per realizzare questo progetto?

Dall’idea abbiamo impiegato circa un anno e mezzo. Essendo un progetto di teatro sociale e di comunità questo doveva anche uscire al di fuori dell’ospedale e parlare all’esterno, quindi lo abbiamo condiviso con la direzione sanitaria, amministrativa, generale e anche con i nostri colleghi che lavorano al di fuori delle sale operatorie e di questo ospedale. Per farlo abbiamo organizzato una giornata, dove abbiamo convocato la comunità, scritto un invito per i nostri colleghi, per le associazioni di volontariato che lavorano all’interno dell’ospedale e per i cittadini. Abbiamo inoltre intercettato il tribunale dei diritti del malato che ha mostrato un grande interesse, definendo il nostro progetto come un mezzo capace di aumentare il grado di umanizzazione di questo ospedale. La comunicazione con la comunità è stata per noi fondamentale, abbiamo creato una pagina facebook dal nome “umanizzazione dei luoghi di cura” dove raccontiamo il nostro progetto ricevendo risposte e commenti interessamenti anche da altre regioni.

Come avete realizzato questa trasformazione del luogo di cura?

I colori, l’illuminazione, i quadri fotografici in alta definizione e il pavimento ci è stato interamente donato dalla Fondazione La Stampa-Specchio dei Tempi. Abbiamo in seguito costruito un documento che potesse testimoniare il nostro percorso e raccontarlo all’esterno. È stato elaborato un video con le interviste di coloro che hanno partecipato e dei pazienti. Quest’ultime sono state fondamentali, perché rappresentano la voce del principale destinatario del progetto.

Come prosegue ora questo progetto di teatro sociale e di comunità?

Adesso siamo nella fase di disseminazione del progetto, attraverso il sito internet abbiamo ricevuto un invito a raccontare questo percorso all’ospedale di Lecce, Rieti e Trento. Questo ha permesso di creare una rete con altri nosocomi e può essere considerato un primo frutto del progetto, un altro è stato la creazione di un gruppo di ricerca permanente sul campo dell’umanizzazione dei luoghi di cura che riflette sulle parole cultura, arte, teatro, partecipazione, benessere e salute.

Questo lavoro ha trasformato un luogo della cura in un luogo che cura

La prima cosa che questo gruppo ha fatto è stata quella di andare a ricercare quelle evidenze scientifiche che ci dicono che la cultura, l’arte, il teatro e la partecipazione producono benessere e salute. Il Centro di documentazione per la promozione della salute della Regione Piemonte DoRS pubblicherà il nostro progetto e questo servirà a tutti coloro che un giorno vorranno fare ricerca in questo ambito. Questo progetto ne ha fatto nascere al contempo un altro all’interno di questo ospedale, che prevede il rifacimento di altri corridoi attinenti l’area delle terapie intensive. Inoltre, l’interesse si è esteso anche alla Rete Oncologica Piemontese, che vorrebbe elaborare un progetto sulla comunicazione della diagnosi di tumore e lavorare in particolar modo sul setting dove questa avviene, il tutto con una stretta collaborazione con il Corso di Laurea di Infermieristica di Torino.

Il Social Community Theatre Centre|Unito di Torino ha commentato il progetto affermando che anche se riguarda un piccolo spazio, è capace di creare una grande rivoluzione, perché cambia la percezione dei pazienti, dei familiari, degli operatori rispetto ai luoghi della cura. A me piace dire che questo lavoro ha trasformato un luogo della cura in un luogo che cura, che può creare qualcosa di positivo: il benessere.

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