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Benedetta follia degli infermieri

di Giordano Cotichelli

All’inizio dell’anno è uscito l’ultimo film di Verdone “Benedetta follia”. Il filo narrativo è quello solito cui ci ha abituato l’attore e regista romano, caratterizzato da un lui protagonista, in crisi esistenziale fra rotture e manie da ipocondriaco cronico, sostenuto dalla bella di turno che lo conduce per mano verso un finale felice, quanto scontato. Più che la trama qui preme di sottolineare, forse per la prima volta nei lavori di Verdone, la presenza della figura di un’infermiera che quasi fuoriesce dai soliti cliché.

Quell’infermiera non più un cliché nell’ultimo film di Verdone

L’infermiera viene mostrata una professionista preparata, culturalmente competente, posata, in grado di fare educazione sanitaria e di consigliare percorsi diagnostico-terapeutici. È vestita di una divisa colorata, ma sobria, e si muove in un ambiente sostanzialmente rilassante. È una bella donna, ma lontano dagli stereotipi della fatalona svampita cui tanti B movie ci hanno abituato. Quindi? Dov’è il problema? qualcuno potrebbe dire. Semplice la risposta. Pur costruendo un personaggio e delle ambientazioni che restituiscono onore e gloria alla professione, forse l’infermiera di Verdone è figura quanto meno lontana dalla realtà se non in misura maggiore, almeno alla stessa maniera dei film softcore degli anni ’70 della commedia italiana. Questo non perché le caratteristiche presentate non appartengano alla professione infermieristica. Tutt’altro.

Il regista romano nel disegnare il personaggio dell’infermiera probabilmente avrà attinto alle sue personali – e positive – esperienze, e si sarà anche documentato rispetto alla dimensione moderna e attuale della professione. Il problema però è che, purtroppo, il risultato restituisce l’immagine di una professionista e di un ambiente sanitario, non propriamente rappresentativo del contesto attuale, dove ambienti tranquilli e rilassanti sono abbastanza difficili da trovare nella quotidianità lavorativa continuamente messa sotto pressione. Figurarsi trovare il tempo per parlare, educare, relazionarsi e rafforzare la relazione assistenziale fra paziente e infermiere, vestito sì con una divisa colorata, bella, ma che alle volte restituisce un’immagine sofferente, sotto tensione, indaffarata e anche un po’ confusa, che cerca affannosamente nei taschini della divisa colorata guanti, penne, matite, lacci emostatici, cerotti, fonendoscopi, taccuini e qualche blister volante.

Fa piacere che Verdone mostri un’infermiera culturalmente preparata che sappia tenere una conversazione amabile, ma il più delle volte non è così e gli episodi di relazioni disfunzionali, di comportamenti discriminatori sembrano aumentare. Sia chiaro, non ci si sta lamentando per un’immagine della professione che, per una volta tanto appare positiva. Affatto, anzi di questo si può solo ringraziare il regista, ma purtroppo è un’immagine che appare quanto meno lontana dalla realtà. Certo il film è una commedia, non un documentario, ma dovrebbe comunque essere il più possibile sovrapponibile alla realtà.

Per assurdo, le infermiere da copertina erotica delle commedie pecorecce di una trentina di anni fa, pur risultando, nello stereotipo mostrato, un’immagine offensiva, erano attinenti nella realtà ad una visione maschilista, del pubblico e delle gerarchie mediche, che vedevano in passato, la professionista infermiera secondo il vecchio cliché della cultura mediocre nazionale di una donna madre, moglie e … amante. Ciò nonostante, la stessa commedia italiana ha avuto modo di rendere omaggio alla professione infermieristica in altri film, sempre ambientati a Roma. Uno era intitolato “Il paramedico” (1982), con Enrico Montesano, dove veniva mostrato un professionista tuttofare tipico di quegli anni. L’altro è il celebre “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola (1974), dove l’ausiliario Antonio non riesce a diventare infermiere (generico) per dissidi politici con la caposala suora e viene retrocesso a portantino. Uno specchio della professione realistico ancora fino alle porte degli anni ’90. E come non pensare all’infermiera che deve fare la puntura al maresciallo della Guardia di Finanza (Aldo Fabrizi) ne “I tartassati” (1959), impersonata dalla Sora Lella (sorella del Fabrizi), che rappresenta anche in questo caso la professionista del tempo reale e riconosciuta, praticona e un po’ zotica, ma che comunque rassicura Fabrizi e Totò (c’era pure lui) di non temere per il rischio di rottura dell’ago durante l’intramuscolo.

Insomma, le rappresentazioni delle infermiere e degli infermieri nel cinema italiano, in un modo o nell’altro hanno sempre avuto il pregio di rimandare a una realtà immediata e presente, al contrario dell’infermiera di Verdone. O meglio, è come tutti noi ci consideriamo, vorremmo essere, ma non è così in un mondo ospedaliero fatto di pronto soccorso dove si aspetta giornate in barella, dove si muore in barella, dove tempo per parlare, capire, sapere, non ce n’è mai a sufficienza. E allora, non ce ne voglia Verdone se è stato strumentalmente utilizzato per questa digressione professionale, ma sarebbe il caso che la realtà della sanità italiana, come quella della società, riuscisse a bucare lo schermo, cinematografico e televisivo, per lanciare il suo messaggio di aiuto. Per dire che le cose non vanno affatto bene, per chi vive, lavora, subisce il mondo sanitario italiano stretto in una emergenza infinita cui è necessario dire basta, anche a livello di finzione scenica.

Anche parafrasando le parole di Nino Manfredi (l’infermiere di Scola), che sbotta: E ce semo stufati de esse boni e generosi . E nel rimproverare il personaggio del palazzinaro, interpretato da Gassman. Gli urla: Tu stai mejo de me solo perché quelli come te succhiate da secoli el mejo de noialtri. Antonio, infermiere mancato, retrocesso a portantino che, nella finzione cinematografica si chiamava di cognome (vedi la scena della Fontana di Trevi) … Cotiché.

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