Se l’infermiera preparata, formata, timida ed esile che stava sullo sfondo di un corridoio in "Qualcuno volò sul nido del cuculo", avrà la forza, gli strumenti, l’aiuto per poter realizzare il suo mandato di sostegno e cura, assistenza e vicinanza a chi soffre di un disagio e non di una malattia mentale, cercando la lunga strada della relazione di fiducia, della reciprocità, del riconoscere l’altro da sé e rifiutando la scorciatoia della contenzione, della violenza, dovremo ringraziare anche Milos Forman per aver dato un contributo enorme alla salute pubblica, a chi soffre del disagio mentale, all’assistenza e alla stessa identità di una professione.
Addio a Forman, il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo
Si è spento il 13 aprile, all’età di 86 anni, Milos Forman, il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Nato in Boemia nel 1932, negli USA firma i suoi capolavori più noti fra i quali, oltre al citato film con Jack Nicholson, anche Amadeus, Hair, Larry Flint, oltre lo scandalo, Valmont, Ragtime, Man of the moon, e molti altri.
In ognuna delle sue opere si riesce a leggere l’impegno politico e culturale del regista, mai scontato, ribelle sempre attento al contesto, alla persona. Un unico filo conduttore sembra legare il pacifismo rivoluzionario del musical Hair all’anti-moralismo dell’editore pornografico Harry Flint, al genio e sregolatezza di Amadeus fino all’opera prima di denuncia sociale di Qualcuno volò sul nido del cuculo; per il quale fu premiato con 5 Oscar (Miglior film, regia, attrice protagonista, attore protagonista e sceneggiatura non originale), più molti altri premi fra Golden Globe, Bafta, David di Donatello, e molti altri ancora.
Qualche anno fa mi sono trovato a lavorare in un Istituto Neuropsichiatrico di una grande città del nord Italia. Da poco erano stati “chiusi” i manicomi con la legge 180 e ancora molto restava del retaggio reclusorio del manicomio passato, specie nei comportamenti di ospiti e professionisti.
Un giorno, in previsione della proiezione del film in televisione, io ed un’altra collega invitammo i pazienti a raccogliersi in sala mensa, dove c’era la tivù, per una visione collettiva e partecipata.
Riempimmo la sala anche con pazienti provenienti da altri reparti. Era stato, il nostro, un passo un po’ azzardato, perché avevamo messo assieme persone con disagi differenti e per un nonnulla sarebbe potuto esplodere un litigio, un battibecco, una rissa.
Durante tutta la proiezione del film invece non si sentì volare una parola. L’attenzione e la partecipazione, anche da parte di chi sembrava meno presente in altre occasioni, erano pressoché totali.
Diversi piansero mute ed inarrestabili lacrime che riverberavano alla luce azzurra del televisore. Per giorni continuarono a chiederci, a me e alla collega, quando ci sarebbe stata un’altra proiezione simile.
Quell’ospedale non esiste più, ma quei pazienti sì, sotto altre identità, in altri luoghi, persi e sensibili, fragili, ma dignitosi; bisognosi unicamente che quella infermiera preparata, formata, timida ed esile che stava sullo sfondo di un corridoio, possa avere la forza, gli strumenti, l’aiuto per poter realizzare il suo mandato di sostegno e cura, assistenza e vicinanza a chi soffre di un disagio e non di una malattia mentale, cercando la lunga strada della relazione di fiducia, della reciprocità, del riconoscere l’altro da sé e rifiutando la scorciatoia della contenzione, della violenza (nei giorni scorsi è stata utilizzata una testata da parte di un infermiere per “sedare” un paziente) dell’elettroshock, della categorizzazione del diverso.
Se ciò sarà possibile, si dovrà ringraziare anche Milos Forman per aver dato un contributo enorme alla salute pubblica, a chi soffre del disagio mentale, all’assistenza, e alla stessa identità di una professione.
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