In questi giorni abbiamo assistito a un dibattito molto acceso nel merito della scelta di alcune aziende sanitarie di far indossare agli infermieri una pettorina riportante la scritta “non disturbare” durante l’attività di somministrazione della terapia farmacologica. A onor del vero, tale sistema è già in uso in molte realtà internazionali e nazionali, ma – come spesso accade nel mondo dell’informazione – ciclicamente si decide di portare all’attenzione qualcosa come novità, ma che tale non è.
Quella pettorina “non disturbare” che fa tanto discutere
Il fatto che se ne parli, però, credo sia importante, poiché ci dà la possibilità di entrare nel merito della questione anche a partire dalle considerazioni espresse sia da chi si dichiara sostenitore del sistema, sia da chi reagisce con un moto di rifiuto.
Garantire la corretta somministrazione della terapia farmacologica è certamente una delle competenze che l’infermiere è chiamato ad agire nell’attività quotidiana, e riveste importanza peculiare per le possibili conseguenze nefaste sulla salute degli assistiti derivanti da errori durante l’intero processo di somministrazione. In aggiunta, come ben sappiamo, somministrare la terapia farmacologica si compone di atti tecnici, di ragionamento clinico e relazionali tali da richiedere la presenza di un infermiere; in altro caso non servirebbe l’expertise professionale, tant’è che in molte occasioni l’infermiere funge da facilitatore e da educatore ai caregiver o agli stessi assistiti, al fine di promuovere l’autogestione del trattamento farmacologico al domicilio, ad esempio.
Ma perché la pettorina? Ma perché “non disturbare”?
La risposta è semplice, banale, quasi scontata: perché gli infermieri durante la somministrazione della terapia sono continuamente sottoposti a interruzioni, perché le interruzioni sono una delle principali fonti di errore, perché l’errore necessita di interventi preventivi; alcuni studi sostengono l’efficacia dell’utilizzo della pettorina sulla riduzione degli errori, e dunque: usiamola.Le disquisizioni potrebbero qui concludersi, posto che servirebbero studi che maggiormente diano sostegno alle affermazioni appena riportate, invece vorrei fare alcune considerazioni che partono dal seguente assunto, portato all’attenzione nei giorni scorsi da un caro amico e paziente consapevole, come ama definirsi Claudio Diaz, ovvero: questo sistema cura i sintomi, ma non cura la causa.
Un modello organizzativo per compiti di stampo tayloristico, che prevede la logica dei giri, in cui l’infermiere è impegnato nel compito di somministrare la terapia per un numero cospicuo di ore durante il proprio turno certamente può trovare nell’uso della pettorina “non disturbare” un efficace alleato contro le interruzioni. Il problema però è che in una logica di presa in carico del paziente e della famiglia, di pianificazione assistenziale personalizzata, la logica del giro terapia non dovrebbe esistere, il modello funzionale non dovrebbe essere contemplato (molte volte si maschera sotto mentite spoglie con denominazioni differenti), la gestione della terapia dovrebbe rappresentare una quota parte non così rilevante dell’attività dell’infermiere, poiché impegnato a prendersi cura di un numero definito di pazienti.
La logica del “non disturbare” rappresenta inoltre il fallimento della relazione, è il paradosso della comunicazione. Siamo al servizio delle persone e ci presentiamo con un divieto. Come possiamo pensare di instaurare relazioni fiduciarie con gli assistiti e i famigliari, se in talune situazioni poniamo barriere comunicative così esplicite? Eh, ma spesso i famigliari disturbano, i colleghi disturbano, gli altri professionisti disturbano, ci fermano ovunque e sempre, e se lo fanno durante la somministrazione della terapia il rischio di errore è elevatissimo
. Questa affermazione è estrapolata dalle parole di molti colleghi ascoltati e che denunciano una situazione in cui sono troppo spesso sottoposti a continue sollecitazioni da parte di chicchessia durante lo svolgimento delle proprie attività.
E allora forse la risposta non è la barriera della pettorina, quanto forse domandarsi in che modo garantire che i famigliari ricevano corrette informazioni, che vengano ascoltati; domandasi come avvengono gli scambi di informazioni tra i diversi professionisti, se sono codificati momenti ad hoc, se invece molto è lasciato all’urgenza del momento, come invece troppo spesso accade.
In terzo luogo, chiamerei in causa l’appropriatezza prescrittiva. Ahimè, non si risentano i colleghi medici, ma ormai molti studi ci dicono che il fenomeno dell’over prescription è parecchio dilagante nelle realtà ospedaliere; se osserviamo un foglio di prescrizione terapia di un paziente ultraottantenne, difficilmente non troviamo rappresentate tutte le classi farmacologiche, anche in pluriterapie talvolta riportate come un telefono senza fili da medico a medico.
E dunque, la proposta della pettorina “non disturbare”, a mio avviso, rappresenta l'emblema dell'incapacità di un'organizzazione di proporre modelli organizzativi coerenti con il mandato professionale, rappresenta l’allontanamento dal senso della cura laddove si esaspera la distanza relazionale, rappresenta la difficoltà di proporre modelli comunicativi e flussi informativi armonici, lineari, codificati, strutturati, e dico altresì a gran voce che i dirigenti infermieri che vantano di proporre questo sistema sono davvero lontani dal senso del loro mandato
Smettiamola allora di insegnare agli studenti che esiste una pianificazione assistenziale che fonda il proprio esistere sulla personalizzazione. Comprendo appieno però i colleghi che si trovano in condizioni lavorative rischiose e che in qualche modo trovano in questo sistema una soluzione (parziale) ai disagi che quotidianamente vivono, ma sento molto amaro in bocca perché questo esempio conferma che continuiamo a somministrare lenitivi e sintomatici, ma non eradichiamo le cause.
E se così è, perlomeno diciamo che così è. E non altro.
Ciro78
2 commenti
Casacca
#1
Buongiorno, sono un infermiere in un reparto di ortopedia in Inghilterra e devo indossare per forza una pettorina rossa durante la terapia. Questo articolo mi trova "parzialmente" d'accordo. Premetto che lavoro in questo reparto da quasi un anno ormai e sono responsabile di una decina di pazienti. Il problema é che sono in una condizione fra il "drenato" e lo "stremato". Non so come sia la realtà italiana,non avendo mai lavorato in italia come infermiere,ma qui il medico in reparto in genere non é mai presente quindi siamo il filtro di tutte le figure professionali, terapisti occupazionali,fisioterapisti etc, parenti, pazienti, personale di supporto, specialisti in visita etc. Quando indosso la casacca rossa per la terapia quindi non lo faccio per non farmi disturbare, ma semplicemente per "avere il tempo" di fare qualcosa di diverso dal parlare, organizzare, aiutare nell'igiene, nel care round, trovare le note mediche, chiamare i medici, la farmacia, i vari team per i follow up. Tutto questo sempre che non ci siano pazienti confusi o con demenza ovvio, in quel caso con una casacca rossa ho un faro e devo togliermela. Quindi purtroppo, come mi sono trovato più volte a pensare durante il mio corso di studi, c'é un abisso fra i pensieri di chi é in uno stanzino a scrivere le linee guida e chi é effettivamente gettato nell' arena a combattere con i leoni.