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editoriale

Racconto di Natale, parafrasando Dickens

di Giordano Cotichelli

Noi infermiere ed infermieri, lavoratrici e lavoratori tutti, che ci spenderemo ancora una volta durante queste festività sappiamo che non siamo i figuranti di nessuno, ma siamo le reali statuine di un presepe che ogni giorno costruiamo, con i colori, la cartapesta e le lucine della vita di tutti.

Natale 1983, qualche anno fa

Lavoravo presso un Istituto Neuropsichiatrico in una città del Nord Italia; uno dei tanti manicomi “aperti” dalla Legge Basaglia. Il reparto dove prestavo servizio, ormai da sei mesi, si chiamava Psico-Geriatria e stava in un padiglione dove tutti i pazienti erano anziani, cronici e con storie psichiatriche vecchie di decenni.

C’erano tre sezioni: una per gli uomini, dove stavo io, e le altre due per le donne, al primo e al secondo piano. Avevamo 67 pazienti da seguire e tra Oss (a quel tempo si diceva ausiliario socio-sanitario specializzato) ed infermieri, durante il turno di mattina oscillavamo in numero tra le 12 e le 15 presenze.

Ognuno con un suo compito preciso: terapia, soggiorno (più avanti si sarebbe chiamata animazione), doccia (a rotazione si lavavano i pazienti più… distratti). Eravamo quasi tutti di “giù” e, fatta eccezione per gli infermieri psichiatrici, che erano tutti abbastanza grandicelli, eravamo tutti professionali freschi di diploma regionale. Io ero fresco anche di servizio militare, vabbè!

Una mattina la caposala chiamò me e un’altra giovane collega e ci disse che per due settimane noi saremmo stati incaricati di fare il presepe. Il presepe? Come? In che senso?, replicai. In che senso si fa un presepe? Si fa e basta! Se avete bisogno di comprare qualche statuina nuova, qualche casetta in legno, l’erba finta, animali, buoi, cammelli, insomma, quello che vi serve, me lo chiedete e, nei limiti del possibile, si compra.

Niente di strano, l’ospedale era una struttura gestita da un ordine religioso e per il momento evocativo tradizionale si concedeva pure qualche strappo alla regola. E alla cassa. La stessa che si apriva difficilmente per comprare un caffè o un pacchetto di sigarette in più per quegli ospiti che non erano proprio fortunatissimi con le questioni di reddito. E spesso il caffè e le sigarette gliele passavamo noi. Però, questa, è un’altra storia.

Insomma, io e la mia collega ci mettiamo al lavoro. Personalmente ero particolarmente felice. Non tanto perché non avrei fatto terapie, bagni, etc, ma perché fare il presepe è una piccola tradizione della mia famiglia, in cui siamo tutti rigorosamente atei osservanti e artisti per vocazione.

Sin da piccolino assieme a mio padre facevo un plastico in miniatura, con tempere, cartapesta, segatura colorata per rappresentare l’erba, il gesso per la neve, rametti secchi, casettine improvvisate con cartone, vinavil, etc.

Con la collega ci mettemmo al lavoro, proseguendo spesso oltre il turno. Avevamo vent’anni, eravamo entrambi immigrati, senza famiglia e amici e quindi allungavamo le giornate in reparto. Più andavamo avanti, più i pazienti si lasciavano coinvolgere.

Chi incollava un pezzo, chi costruiva un muretto con colla e sassi, chi partiva sparato per andare a prenderci le cose più strampalate. “Le foglie secche? Ma secondo te che ci dobbiamo fare?”. Non ricevemmo risposta, ma riuscimmo a dare una collocazione anche ad un mucchietto di foglie secche.

Alla fine venne fuori un presepe dalla forma di una “elle”, con il lato più lungo che misurava due metri e l’altro poco più di un metro. Stava nell’angolo del refettorio, ricco di statuine, luci e decine e decine di occhi che si perdevano ad ammirarlo.

Bel! L’è propri bel, disse B., un ospite cieco e paralizzato in carrozzina. Era così da quando si era sparato per disperazione amorosa e finanziaria in pieno boom economico.

Per un attimo abbiamo creduto e, ateisticamente sostenuto, che il presepe avesse fatto il suo piccolo miracolo di Natale. Ma B. in realtà continuò ad essere cieco, però un po’ più felice.

Il giorno dell’inaugurazione il presepe riuscì a coinvolgere anche G., un paziente abbastanza giovane, rimasto un po’ troppo sensibilizzato da certe sostanze che negli anni ’70 cominciavano a circolare bruciando sogni d’amore e rivoluzione e regalando incubi di solitudine e disperazione.

Mentre eravamo tutti di fronte all’opera brindando al Natale, facendoci gli auguri e ammirando il lavoro artigianale, arrivò G., con il suo stereo portatile. Pose l’arnese in terra e fece partire una musicassetta di Bob Dylan con Knockin’ on heaven’s door.

La musica che si spandeva per la sala, anche se la stragrande maggioranza dei presenti non capiva una parola d’inglese, riuscì per un attimo a farci credere che dopo le tante porte che ognuno di noi aveva sempre trovato chiuse: quelle del lavoro e della salute, del rispetto, della libertà e della dignità, della famiglia o della serenità, alla fine, lo stesso paradiso si era deciso a venirci incontro.

E tutti noi, grazie a tutti noi, più che alla magia di chissà che cosa, riuscimmo a sentirci insieme in un comune paradiso

Era il Natale del 1983, di lì a poche settimane ci sarebbe stato il decreto di San Valentino, quello con cui il primo governo Craxi tagliò 4 punti di contingenza, iniziando a slegare le politiche salariali dall’aumento del costo della vita.

Il PCI impugnò l’arma del referendum abrogativo e perse in maniera clamorosa. Da lì fino alla Bolognina fu una discesa continua che si arrestò solo con la fine del partito, con il cambio di casacca del più grande partito della sinistra, italiana ed Europea. Per la classe lavoratrice invece la discesa deve fermarsi.

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