Clara era infermiera. Lavorava nel reparto di Tisiologia del complesso ospedaliero della “Charité”. Molti dei suoi pazienti arrivavano in ospedale in fin di vita, con i polmoni divorati dalla tubercolosi ed il corpo ormai senza più forze. Mario fece un passo verso di lei. Le prese entrambe le mani e questa volta non fu il verde militare che attirò lo sguardo della donna. Per un momento tornò a perdersi, ma negli occhi del soldato. Erano amici da sempre. Da allora e da prima di allora.
L’ospedale non era poi diverso da una grande caserma
- Clara, prima o poi dovrai deciderti - le disse il soldato, mentre le restituiva il lasciapassare.
- Sì hai ragione. Prima o poi lo farò - rispose lei quasi meccanicamente.
La mano dell’uomo restò ferma a mezz’aria, avvolta dall’orlo della manica della giacca militare. Era ben cucita, un lavoro industriale fuor di dubbio, ma che mostrava una cura artigianale al limite dell’ossessione per il particolare. Clara ne era quasi ipnotizzata. Il feldgrau dell’uniforme aveva sempre esercitato un certo fascino su di lei.
Non amava i militari, non li aveva mai amati. Né prima, né ora, né allora. Erano cambiati i tempi, ma le uniformi continuavano a dominare l’orizzonte della vita, la sua e quella di ogni altra persona. Diverse nel colore: un po’ più verdi oggi, un po’ più grigie, ieri, ma sempre irrimediabilmente militari.
- Guarda che non hai più molto tempo per scegliere. Fra poco qui chiudono tutto ed il tuo permesso è prossimo alla scadenza. Non te lo rinnoveranno di sicuro. È finito il tempo dell’incertezza, Clara.
- Sì, hai ragione. Prima o poi lo farò - replicò lei meccanicamente.
- Ma mi ascolti quando ti parlo?
Alla fine Clara riprese i suoi documenti. Il piccolo riquadro ipnotico della manica tinta di verde era scomparso. L’incantesimo si era rotto. La rotazione ciclica di una betoniera tradì i loro pensieri. Un gruppetto di muratori lì vicino stava costruendo un muro.
- Ma insomma, Mario, che vuoi da me? Tutti i giorni mi dici sempre le stesse cose. Che colpa ho io se lavoro alla Charité, nel settore russo e ho casa nel settore francese. Devo scegliere? Cosa? La casa o il lavoro? Il lavoro è il mio, e la casa pure. Sono le sole cose che mi restano. Il marito me lo avete ammazzato e del futuro non me ne frega più niente, tranne quel poco che ancora mi illudo di strappare alla morte; non per me, ma per i condannati di Herr Koch.
Clara era infermiera. Lavorava nel reparto di Tisiologia del complesso ospedaliero della “Charité”. Molti dei suoi pazienti arrivavano in ospedale in fin di vita, con i polmoni divorati dalla tubercolosi ed il corpo ormai senza più forze. Mario fece un passo verso di lei. Le prese entrambe le mani e questa volta non fu il verde militare che attirò lo sguardo della donna. Per un momento tornò a perdersi, ma negli occhi del soldato. Erano amici da sempre. Da allora e da prima di allora.
Erano stati a scuola assieme, nelle stesse organizzazioni giovanili. E in quelle sportive. Poi avevano preso strade diverse. Lui era diventato un bravo operaio in un birrificio, mentre lei aveva iniziato a fare le pulizie presso il Centro Ospedaliero della “Charité”. Sgobbavano sodo entrambi. Lui non si risparmiava. Era sempre disponibile per un cambio di turno, o per una sostituzione di domenica; uno straordinario o comunque per finire un lavoro oltre l’orario.
Lei puliva con dovizia tutto quello che si doveva: spazzava i larghi viali fra i padiglioni dell’ospedale e passava il mocio nei lunghi corridoi dei reparti, saliva e scendeva, lustrandole, tutte le scalinate. Quelle anguste e a chiocciola, ai lati dei padiglioni, che collegavano, come dei passaggi segreti, i reparti. C’erano pure le scalinate enormi, all’entrata dei vari padiglioni. Conduceva ognuna ad un atrio imperioso e si prestavano tutte, per le periodiche foto ufficiali di gruppo, con il personale in posa: i professori e i dottori, i praticanti e gli studenti, le suore, le infermiere, gli inservienti e tutto il resto. Ognuno con la sua “divisa”.
Qualcuno con un abito sobrio, diversi in camicia bruna, molti vestiti del bianco dei camici, del blu o del grigio dei grembiuli da lavoro. Gli altri si facevano le foto ufficiali e Clara, invisibile, puliva e obbediva, spazzava e rassettava. Invisibile e disponibile, pronta per ogni compito da assolvere. Per ogni ordine da eseguire. E la “Charité”, come tutti gli ospedali del mondo, abbondava di individui bravi solo a dare ordini: direttori e direttrici di ogni specie e tipologia umana: funzionari, capireparto e superiori, tanti superiori, fosse anche un inserviente come lei, ma assunto in pianta stabile, che quindi si sentiva, anche lui, gerarchicamente superiore, in diritto, di un diritto quasi naturale, di darle degli ordini.
L’ospedale insomma non era poi diverso da una grande caserma. Clara non se ne curava. Era giovane e forte, decisa ad avere un lavoro che potesse migliorare nel tempo. Voleva fare l’infermiera. Aspirazione di non facile realizzazione. Lei si sarebbe accontentata anche di riuscire a frequentare solo il corso base, quello di un anno; che significava ad ogni modo fare sacrifici, lavorare sodo, leggere e studiare tanto. Tanto. Sapeva che prima o poi ci sarebbe riuscita. E, infatti, l’occasione si era presentata con l’entrata in guerra che aveva fatto salire la richiesta di personale.
Sì, con la guerra c’era stato bisogno di molto personale per sostituire quello mobilitato per il fronte francese e per il fronte africano. E poi per quello balcanico. Ed infine per la Russia. Mario pure era stato chiamato alle armi ed era finito proprio in Russia, assieme a suo marito. Mario era tornato, suo marito, il suo Wilhelm, no. La vita era franata tutta attorno a lei, lasciando intatto, dentro di lei, solo un dolore infinito, in un tempo cristallizzato, mentre tutto il resto correva via velocemente. Troppo.
La città aveva conosciuto una serie interminabile di bombardamenti, la fame, la miseria ed infine la pace portata sulla punta di baionetta dell’occupazione, quella dei vincitori. I militari erano cambiati, ma erano sempre gli stessi. Molti direttori e molte direttrici erano cambiate. Molti direttori e molte direttrici erano però rimaste al loro posto. Si erano solo tolti la camicia, quella bruna, buttato in un angolo qualche distintivo compromettente ed avevano continuato a dare ordini da dietro le stesse scrivanie.
- Posso andare adesso? - chiese Clara a Mario con un tono, questa volta, il più caldo possibile, quello giusto per congedarsi da un amico. Da un amico di sempre.
- Sì, sì vai a riposare dannata zuccona! Ne avrai bisogno dopo…- la frase si spezzò in gola, sovrastata da un maccheccazzostasuccedendo.
Mario si era voltato verso destra e stava guardando alcuni fuggevoli fotogrammi di una scena di cui aveva perduto le prime immagini. Un’ombra, quasi la sensazione di un niente che, attraversata la scena, aveva infranto l’aria pesante di quel pomeriggio d’estate, restituendo l’immagine di Conrad che stava saltando il reticolato.
Lo sguardo di Mario era stato distratto dall’arma del commilitone che, roteando su sé stesso, finiva in terra. Oltre il filo spinato, il soldato era già scomparso dentro un furgone della polizia. Cazzo! Conrad se n’è scappato all’Ovest, pensò. Conrad aveva disertato! Mentre era di guardia sul lato del varco opposto al suo, gli era bastato percorrere di corsa pochi metri, farsi coraggio, saltare, e si era ritrovato dall’altra parte, nel settore francese. Il mozzicone di sigaretta che aveva tradito per la libertà, ancora era fumante nel punto dove lo aveva gettato; un secondo prima di scappare. Un attimo, lungo una vita.
La confusione ora regnava sovrana. La tensione era alle stelle. L’ufficiale di guardia, mentre urlava ordini ed imprecazioni contro tutti, era già pronto a scatenare una guerra. Le persone in attesa al varco erano rimaste pietrificate, e il gruppo di muratori che stava lavorando sulla cinta muraria del confine si era accovacciata in terra temendo il peggio. Mario fece mezzo giro attorno a Clara, coprendola alla vista di buona parte dei presenti.
- Passa ora! Passa ora, veloce! Vattene via, che qui presto chiuderanno tutto! Vai!
La donna superò rapidamente lo spazio ancora aperto del varco e sparì dietro l’angolo di un vicolo senza nome della Bernauer Strasse, dalla parte del settore francese. Giusto in tempo. I minuti che seguirono riempirono l’angusto spazio del checkpoint di soldati e armi, filo spinato, muratori, camion, poliziotti, cani lupo ed ufficiali che gareggiavano a chi latrava più forte. La stessa cosa accadeva dall’altra parte, dove era fuggito Conrad.
Anche se la confusione sembrava più simile a quella di una festa, o all’esplodere della gioia dopo che la tua squadra ha segnato un goal in suo favore. Berlino si ritrovò così sospesa in un limbo temporale che sembrava non potesse finire mai. Le prime ombre della sera, però, riuscirono a riportare un po’ di calma negli animi di tutti, giusto in tempo, prima di essere spazzate via dalle luci delle enormi fotoelettriche, fatte arrivare sul posto, sia da un lato che dall’altro del filo spinato, a rischiarare a giorno tutta l’area. La squadra dei muratori era stata rinforzata ed i lavori di costruzione del muro, in quel punto della città, sarebbero proseguiti in maniera più veloce, decisa e senza più incidenti di sorta. Il varco, già dal mattino successivo, ormai non esisteva più.
Mario era rimasto sul posto per tutta la notte. Anche quando era arrivato il cambio da parte del plotone del turno notturno della Vopos, la Volks Polizei della DDR, la Repubblica Democratica Tedesca. Ormai fuori servizio, se ne sarebbe andato di lì a poco. Il tempo di fumare l’ultima sigaretta. Il tempo di guardare verso il vicolo dove era scomparsa Clara. Tirò fuori il pacchetto di Rote Händle, le sigarette della classe operaia berlinese da sempre, da prima di Hitler, sotto Hitler ed anche adesso che, nonostante tutto, le cose per la classe operaia berlinese, e per quella tedesca del settore russo, non andavano proprio molto bene. Mario si asciugò le labbra, per poter accogliere meglio il piccolo cilindro di carta e tabacco. Accese un fiammifero.
- Me ne offri una o mi fai fare una boccata dalla tua? – Il soldato continuò a guardare davanti a sé. Non aveva bisogno di voltarsi per capire che Clara era lì, dietro di lui.
- Non dovevi essere dall’altra parte con i tuoi amici francesi?
- Dovevo, ma poi domani ero di turno in reparto e non potevo mancare - una bugia detta così, rabberciata alla meglio - E poi se qualcuno deve proprio disertare, è meglio che lo facciano i soldati e non le infermiere. E a questo, mi sembra che ci abbia già pensato il tuo amico Conrad.
Già, stava per rispondere Mario, ma non fece in tempo. Si scambiarono il loro primo bacio da quando si conoscevano. Non avrebbero più smesso. Mario non disertò, ma preferì lasciare i Vopos, per tornare al lavoro del birrificio. Qualcuno dice di averli visti scambiarsi un bacio in pubblico la notte del 9 novembre del 1989, quando il muro che avevano visto costruire, finalmente crollò. Videro una bella coppia di anziani baciarsi delicatamente mentre tutta Berlino, e non solo, impazziva dalla felicità. Un reporter dell’Agenzia Magnum riuscì anche a fotografarli. Furono visti in altre occasioni.
Sempre dove c’era un muro di confine: in Ungheria o in Messico, in Israele o in Turchia o a bordo di un barcone in mezzo al Mediterraneo, davanti alle coste italiane. Dicono che Mario e Clara perdurano a scambiarsi un bacio di amore e di rabbia in ogni luogo che continua a chiudere fuori un pezzo di un’umanità. In ogni luogo che, come quel pomeriggio del 15 agosto del 1961, un Hans Conrad Schumann in servizio, è pronto a violare con un gesto di disobbedienza, mentre nelle orecchie, forse, risuonano le note di una canzone, le parole precise di una strofa di quella canzone: Sopra il muro di Berlino se ne stette appollaiato/ Aspettando che passasse un editore di memorie/ Passò invece una ragazza con un mitra fra le braccia/ Lui le sparse del profumo sui capelli, sulla faccia …
(Fango, Ricky Gianco, 1977).
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