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Editoriale

Natale, c’era una volta la tregua

di Monica Vaccaretti

Il coro polifonico canta magnificamente “Betlemme, la montagna, la mia terra”. Il Natale è tornato in ospedale. Riacciuffo una lacrima quando mi torna in mente che questa lunga sala d’attesa piena di seggiole per il concerto era piena di letti con persone senza respiro. Erano le prime ondate. Mentre le coriste cantano “Tu scendi dalle stelle” io penso alla luce delle stelle morte, sono le parole potenti e poetiche che danno il titolo all'ultimo saggio di Massimo Recalcati sul lutto e sulla nostalgia. C'è qualche sanitario in divisa tra il pubblico, forse abbiamo bisogno di una tregua. O semplicemente di un momento di normalità che ci ricordi che anche qui dentro è ancora una volta quella cosa che chiamano Natale.

Buon Natale, con la speranza che l'umanità possa sconfiggere il vento

Che sia una tradizione millenaria o un'abitudine che ci portiamo dietro sin da bambini, è un momento struggente in cui sembra che il mondo diventi più buono e più bello. Umanamente abbiamo bisogno tutti di respirare un po' di quest'aria buona, specialmente ora che siamo tornati a respirare meglio. Non importa se è una favola che ci siamo inventati per dare un senso al mondo o se è davvero la storia più vera del mondo, in ogni caso è importante che il Natale ci sia.

Mi scopro sorprendentemente nostalgica dei tanti Natali passati in ospedale, dapprima al piano terra in Pronto soccorso e poi con gli anni nei piani più alti. Risento, come fosse soltanto ieri, che era normale stare qui durante le feste anziché a casa.

Per un'ora facevamo il giro non della terapia ma della cioccolata calda. Offrivamo fette di panettone e cantavamo qualche jingle per creare atmosfera. In reparto i pazienti ci riempivano di affetto e di piccoli e graziosi doni fatti a mano. Mi piaceva fare il turno la notte di Natale, con o senza famiglia, in Pronto soccorso.

Poteva essere una nottataccia - tra sbornie, incidenti stradali e mal di pancia - o essere quella più lunga e noiosa dell'anno, ma certamente i malanni arrivavano alle sette in ambulanza con i primi codici rossi e i verdi a riempire la sala d’attesa e il bancone del triage. La mattina, quando si smontava dal turno di Natale, sembrava tutto diverso, migliore, ed era una gioia tornare a casa con la neve, il gelo o la brina giusto in tempo per farsi trovare al calduccio sotto l'albero e non deludere nessuno per la mancanza, anche se si cadeva dal sonno.

Sono passati vent'anni di Natali fatti così, con il calendario in mano per togliere qualche giorno al lavoro. Ci si spartiva le feste tra colleghi in modo che tutti potessero avere una fetta di festività. Ora nel 2022, mentre ascolto la Ninna Nanna di Brahms al concerto – è la stessa musica del carillon che mi faceva addormentare con il mio bambino di una volta quando tornavo a casa a Natale e volevo soltanto dormire – mi accorgo improvvisamente di non avere voglia di nostalgia e di alleluia. Nostalgia deriva dal greco “ritorno” e “dolore”, è un sentimento di rimpianto di un tempo, un luogo, una persona. Alleluija è una preghiera a Javhè, un canto di gioia.

Non ho nessuna nostalgia degli ultimi anni e, pur essendo grata per tanto, non mi sento ancora di cantare di gioia. Non voglio il ritorno del dolore. Con tutti gli accidenti che capitano e per dare un senso alla vita, il mondo ha da sempre bisogno di fede in qualche Dio. Ed oggi ha desiderio acuto di tornare alla normalità del passato e di gioire come un tempo, senza guerra e pandemia.

Dopo quasi tre anni di virus e di milioni di morti - l'Oms ne conta almeno 14,5 – e dopo quasi un anno di conflitto in Ucraina, io ho bisogno soltanto di tornare a credere nell'uomo e nella sua umanità. Nella gentilezza e negli atti di pietà, non necessariamente cristiana. Mi basta che sia umana.

Ho bisogno di sperare che l'uomo che uccide e distrugge la smetta di essere così dissimile dall'uomo che sa amare e creare bellezza e bontà, non solo a Natale. Voglio ancora credere che l'intelligenza dell'uomo - quella che lo porta a fare sensazionali scoperte come la fusione dell'atomo oltre alla fissione nucleare e ad inventare potenti telescopi che immortalano le galassie - sia capace di trovare una cosa semplice come la pace e la libertà

Per "Tregua di Natale" si intende una serie di "cessate il fuoco" non ufficiali avvenuti nei giorni attorno al Natale del 1914 in varie zone del fronte occidentale della Prima Guerra Mondiale

C'era una volta la tregua di Natale, quella del 1914 quando le due truppe nemiche al fronte smisero di combattersi nella notte santa.

È successo soltanto quella volta, nell'orrore della Prima Guerra Mondiale quegli uomini ritrovarono la bellezza di essere umani.

Mentre osservavo il campo ancora sognante, i miei occhi hanno colto un bagliore nell'oscurità. A quell'ora della notte una luce nella trincea nemica è una cosa così rara che ho passato la voce. Non avevo ancora finito che lungo tutta la linea tedesca è sbocciata una luce dopo l'altra.

È un passo dell'omonimo libro di Antonio Besana che ha ispirato il film francese “Joyeux Noel”. È una storia quasi dimenticata ma fa bene al cuore sapere che il giorno di Natale, quasi per un tacito accordo tra i soldati, ci fu una tregua su quasi tutto il fronte occidentale. A volte la tregua è stabilita con un patto tra generali che può essere tuttavia violato. A volte resiste, si dà tempo di seppellire i morti e di allontanare i feriti, di scrivere lettere a casa. Di giocare una partita a pallone. Fu una tregua spontanea, decisa da uomini prima che da soldati.

Tregua è la sospensione temporanea di un'ostilità, di una lotta, di un contrasto tra due parti avverse che si fronteggiano. È intesa anche come un periodo di calma tra un guaio e l'altro, in cui si può tirare il fiato e riprendere vigore. Non c'è tregua per il momento in Ucraina, i bombardamenti russi continuano a distruggere e uccidere. Se le bombe tacessero almeno a Natale, sarebbe una tregua sul fronte orientale stavolta. Potrebbe essere la seconda notte in cui la guerra si ferma, a distanza di più di cent'anni. Un altro miracolo di Natale.

La tregua a volte bisogna andarsela a prendere o cercarla con il lumicino

Abbiamo deciso di concederci una tregua con la pandemia anche se è un accordo unilaterale, il virus non sembra molto d'accordo e continua ad impallinarci con astuzia ed inganno, anche se ci appare meno cattivo.

Non c'è tregua in Iran, le persone vengono arrestate e condannate a morte. Il regime non tollera e non perdona. I diritti umani sono violati pubblicamente ed il mondo stranamente tace, qui è Natale.

Le donne non si sono fermate al taglio delle ciocche di capelli, la protesta va avanti senza sosta in nome della libertà. Ed ora che vengono assassinati persino i medici e gli avvocati che cercano di salvare e tutelare feriti ed arrestati, il Natale è ancora più lontano a queste latitudini.

Gli umanitari non sono un target, un bersaglio. Lo ha fermamente dichiarato l'Onu nei giorni scorsi. Laggiù poi lo chiamano con un altro nome, Dio. Dicono che non ami la musica, il vino e le cose belle della vita.

Si chiamava Aida Rostami, aveva 36 anni e la sua colpa è aver medicato di nascosto persone colpite durante le violente manifestazioni di piazza che non si sono rivolte per le cure necessarie alle strutture sanitarie per paura di essere denunciate. È stata ignobilmente torturata prima di essere assassinata. L'hanno riconsegnata alla famiglia per la sepoltura, ufficialmente vittima di un incidente d'auto. Quando una rivoluzione è in corso per cambiare un'epoca e una cultura, non c'è tempo per una tregua. Si va fino in fondo.

Non c'è tregua per il clima. L'ultima devastante alluvione ha colpito il Congo ma non ha fatto molta notizia, forse perché da quelle parti le vittime sono più povere che altrove. Non c'è tregua per le carestie, nel Corno d'Africa la fame è ancora tanta senza il pieno del grano ucraino e russo.

Non c'è tregua per gli sbarchi dei barconi e qualche porto come quello di Gioia Tauro deve essere aperto per il loro approdo, in fondo è Natale. Non c'è tregua per i sistemi sanitari di molti Paesi che devono affrontare l'emergenza dei posti letti che mancano negli ospedali per il diffondersi di numerose e pesanti affezioni respiratorie invernali. I Pronto soccorso straripano di influenzati e gli ospedali hanno allestito tende per il triage all'esterno per i bambini con virus sinciziale; lo riferisce il Washinghton Post raccontando la drammatica situazione negli Stati Uniti dove è in rapida crescita anche la curva dei contagi di Covid-19.

Non c'è tregua per gli operatori della salute chiamati ad essere sempre vigili e preparati a sfide continue. Ma dappertutto siamo stanchi e siamo pochi

Sento che ho bisogno per questo Natale di rivolgermi al cielo, alle nuvole e alle stelle. Alla natura. Così alle litanie della liturgia cristiana natalizia mi sento più in sintonia con un canto in Lango, un dialetto dell'Africa orientale. Si chiama Walayo Yamoni, significa “sconfiggiamo il vento”. È tratta dall'opera “The drop that contained the sea” ed è eseguita magistralmente dal Soweto Gospel Choir del Sud Africa con la Royal Philharmonic Orchestra diretta da Christopher Tin, noto compositore di Los Angeles.

È una vecchia preghiera, piena di parole semplici che si ripetono come un mantra o una magia, per far piovere. La musica riporta ancestralmente alla terra dove l'uomo ha avuto origine. Il canto è dedicato ad una goccia d'acqua che si sposta dalla neve ad un ruscello di montagna fino all'oceano e di nuovo alle nuvole. L'acqua è vita.

Siamo fatti di acqua e sangue. Siamo gocce, ma ciascuna goccia contiene la potenzialità del mare. I bisogni dell'umanità sono oceanici tanto sono immensi e gravi ma la pioggia parte da una goccia. Anche se siamo una goccia in mezzo al mare, si dice comunemente che a quel mare mancherebbe la nostra goccia. Come sanitari non dobbiamo dimenticare inoltre che l'acqua nel prossimo secolo sarà il problema globale più importante per tutte le persone e in tutti i paesi del mondo. Con lo scioglimento delle calotte glaciali antartiche, l'innalzamento dei livelli degli oceani, la siccità e la devastazione degli uragani, l'acqua modellerà il disegno del mappamondo.

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