Anche l'amore si ammala e diventa un morbo. Quando una relazione affettiva tra due persone manifesta i segni e i sintomi comportamentali caratteristici della tossicità, l'amore degenera in patologia, anche se non definita in nessun manuale diagnostico. E può essere fatale. La maggiore complicanza, con esiti letali, è il femminicidio . L'effetto collaterale è un dolore emotivo devastante, sia nella famiglia che perde una donna e in un'altra che scopre nell'uomo un assassino, sia nel tessuto sociale in cui la vicenda si svolge. L'atto omicida distrugge moralmente anche chi lo compie, rubandogli la dignità di uomo e la libertà, se viene assicurato alla giustizia per scontare la sua pena ed espiare la sua colpa.
Femminicidio, una tragica epidemia che richiede interventi urgenti
Giulia Cecchettin, la 105esima vittima di femminicidio del 2023.
Togliere la vita ad una donna, atto ignobile che generalmente si accompagna a violenza e crudeltà, sta diventando un'epidemia, forse culturalmente contagiosa. Si trasmette per mano d'uomo, generalmente un familiare o un ex compagno.
Il fenomeno è diffuso in tutto il mondo ma in alcune regioni la mortalità risulta maggiore. L'incidenza è allarmante. In undici mesi, soltanto in Italia, si sono registrati ben 105 casi documentati di amore malato finito in delitto. La prognosi è infausta.
Secondo i dati epidemiologici, colpisce ad ogni età, ragazze e donne mature di ogni estrazione sociale. Si consuma in ambienti diversi, anche in quelli perbene e borghesi dove non c'è miseria materiale ma povertà di valori o poca attenzione ai segnali prodromici. Si stima che l'amore malato , prima causa di femminicidio , sia sottostimato e che il fenomeno sia sommerso, latente ma bruciante come il fuoco sotto la cenere.
L'amore malato origina e si sviluppa, crescendo a dismisura come una massa tumorale che toglie vitalità ai tessuti, nelle relazioni affettive esclusive. Si nutre di controllo e di possesso. Stressa, assilla, umilia, toglie la libertà prima di togliere la vita. È ossessivo ed oppressivo.
Sociologi e psicologi attribuiscono l'eziologia ad una cultura maschilista e patriarcale che sembra coinvolgere in maniera preoccupante anche le nuove generazioni. Nasce come se fosse un gene difettoso del Dna maschile che nei legami sentimentali non accetta il rifiuto e l'abbandono.
Il disturbo affettivo colpisce in maniera graduale e progressiva . Attualmente è un male incurabile, la cura non è nota. Esistono solo misure di prevenzione. Soltanto identificando correttamente i fattori di rischio e riconoscendo precocemente la sintomatologia è possibile non morire.
I sintomi sono specifici, facilmente individuabili e coinvolgono entrambi i soggetti protagonisti della relazione tossica. Tuttavia, il morbo rende confusi, lascia attoniti, confonde la persona che da vittima ne è colpita I sintomi appaiono più evidenti a coloro che sono vicini a chi soffre del disturbo. I segni sono fisici e psicologici e lasciano il segno sulla pelle e nell'anima. Si lamenta senso di inadeguatezza, colpevolezza, paura.
La diagnosi di un amore malato si formula individuando e valutando i suoi effetti nella vittima raccogliendo l'anamnesi, la storia familiare, l'esame obiettivo. Dalla testa che perde ragionevolezza sino ai piedi che dovrebbero muoversi per scappare ed invece restano fermi o portano irragionevolmente ancor più vicini al proprio aggressore.
Reazioni esagerate e gesti insistenti che non rispettano limiti e confini della donna, manifestazioni di gelosia e di rabbia nonché atti di controllo, criticarla ed isolarla, manipolarla ed accusarla sono i sintomi più comuni nell'uomo che ama in maniera anomala sino ad arrivare consapevolmente ed intenzionalmente, di solito con premeditazione, ad uccidere.
Si ritiene che un importante fattore di rischio sia la mancata responsabilità da parte della famiglia e delle istituzioni di educare e di proteggere le potenziali vittime, da una parte e dall'altra. Si denuncia che manca un'educazione all'affettività, non soltanto sessuale.
Per essere sana ed equilibrata, una relazione deve essere impregnata di rispetto ed uguaglianza di genere, fondamenti di ogni forma di convivenza sociale. Rispettare un'altra persona significa non violare il suo corpo, non offendere il suo sentimento, non violentare i suoi pensieri, avere cura delle sue emozioni, non farle del male e non recarle alcun danno fisico e psicologico.
Certamente serve una rivoluzione di genere ma, seppur senza abituarci a tale violenza, è utopico pensare che l'amore malato possa essere eradicato e che la piaga dei femminicidi possa essere estirpata.
Questa strage di donne – ne muore una ogni tre giorni - si può arginare con campagne di sensibilizzazione sin dalla scuola primaria contro la violenza e la cultura maschilista per togliere forza nei giovani all'idea criminale del controllo e del possesso del corpo e della vita della donna, così come fortemente richiesto da numerosi esponenti politici.
Si possono promuovere iniziative sulla prevenzione e aumentare i fondi da destinare ai centri antiviolenza che accolgono le donne che ne sono vittima (numero antiviolenza 1522). È doveroso altresì velocizzare il disegno di legge proposto dall'esecutivo per il rafforzamento delle misure cautelari, aumentando la repressione e le pene e garantendo la certezza della punizione.
Ma l'uomo, quando uccide una donna, non ha in mente il Codice penale. Uccide e basta, per motivi irragionevoli e futili. E purtroppo non smetterà di farlo. Si può ragionevolmente sperare che i casi siano limitati, cercando di intervenire sui determinanti sociali nonostante la variabilità soggettiva che incide sul fenomeno.
Profondamente scosse dal caso di Giulia Cecchettin e di Filippo Turetta , le istituzioni promettono campagne di educazione affettiva obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado, fanno osservare minuti di silenzio nelle aule, pensano a borse di studio in ingegneria in memoria della ragazza ed una laurea consegnata postuma.
La partecipazione collettiva al cordoglio si manifesta con fiori sui cancelli della casa della vittima e fiaccolate silenziose in tante città. Nei giorni dei suoi funerali sarà lutto regionale.
La cura parta dalla famiglia
Ma è in ogni famiglia che si deve tornare a curare, non soltanto i bisogni primari, ma il dialogo, l'ascolto e l'insegnamento dei valori fondamentali. Sono i genitori, prima che gli insegnanti, ad essere chiamati, in virtù del ruolo che rivestono, ad aiutare i propri figli, maschi e femmine, sin da bambini a diventare competenti sotto il profilo emotivo.
A formarli e farli crescere accompagnandoli nel loro personale percorso evolutivo, adoperandosi affinché sia sano, come persone prima che come uomini e donne del domani. Ad insegnare ad accettare che le difficoltà e gli imprevisti così come i fallimenti e i rifiuti fanno parte della vita. E che le imperfezioni, le fragilità, le debolezze non sono la fine di tutto. E che, passandoci dentro, si può diventare più forti e resilienti.
Una misura efficace potrebbe essere insegnare alle figlie ad essere più vigili e prudenti nelle relazioni con gli uomini. A stare attente a chi danno fiducia. Ma una donna giovane, quando ama, tende a vedere soltanto la bellezza del verde della propria vallata.
Alcune donne imparano ad essere più caute in età matura, dopo aver già vissuto amori malati. Altre invece ancora non riescono a mettere distanza, a denunciare, a scappare. E potrebbero essere le prossime vittime. L'unica difesa davvero salvavita è trovare la forza di tagliare ogni rapporto con l'amore malato , andarsene e farsi aiutare, tornando ad essere e sentirsi protetta nella sicurezza di affetti più sinceri e delle associazioni antiviolenza.
La cronaca dell'ultimo femminicidio , la cui storia straziante è giunta all'epilogo con l'arresto dell'assassino in Germania, è dolorosa ed impietosa. In nome dell'umanità, si dovrebbe piangere per tutti i protagonisti della vicenda, sia per i due giovani che per le rispettive famiglie.
È drammatico morire di amore malato, sul marciapiede di una zona industriale, colpita a morte da oltre 20 coltellate al collo e alla testa. Caricata esanime su un’auto, scaricata a 100 chilometri lontana da casa. E finire per sette giorni in fondo ad un dirupo del lago di Bracis, adagiata dietro ad una roccia, nascosta alla vista da un sacco dell'immondizia.
Risparmiata dai lupi che abitano quella zona impervia. Ritrovata da un cane della Protezione Civile del Friuli Venezia-Giulia. È inquietante che un ragazzo di 22 anni sia capace di uccidere con tanta ferocia e di fuggire per una settimana, incurante degli appelli di suo padre e di sua madre e con la consapevolezza, se non la colpa, del delitto compiuto.
Mi angoscia pensare che un giovane uomo, che potrebbe essere un figlio, si sia fermato sulla corsia di emergenza di un’autostrada tedesca soltanto perché aveva finito la benzina e che sia stato catturato, grazie ad un mandato di arresto europeo, tradito dai fari spenti.
Viene da chiedersi lo stato della sua salute mentale , anche se gli psichiatri sostengono che i femminicidi non sono dovuti a raptus. Filippo non era un mostro, come ogni volta la narrazione descrive questi assassini, era un uomo normale, addirittura considerato buono ed innocuo dai suoi amici e conoscenti. Un figlio perfetto con una buona famiglia. Aveva tuttavia un segno distintivo, la violenza, che forse sapeva ben celare e si svelava nell'intimità.
È angosciante mettersi nei panni dei suoi genitori, annientati . È così che muore una brava ragazza di 22 anni, per aver amato un coetaneo, con la faccia da bravo ragazzo. Il movente, secondo i criminologi che studiano il profilo di Filippo, è averlo lasciato pur restandogli buona amica.
Cogliendo il disagio affettivo che viveva nella relazione più intima, lei aveva cercato di allontanarsi. Non è bastato. Giulia, che allunga la lista luttuosa delle donne che sono state assassinate, non sarà purtroppo l'ultima anche se, di fronte all'ennesimo femminicidio, la società civile dice basta e si interroga ogni volta sempre più profondamente.
Dopo di lei, a distanza di sette giorni, è stata freddata a colpi di lupara Francesca Romeo, una dottoressa di 67 anni che tornava a casa dopo aver terminato il suo turno di lavoro alla guardia medica a Santa Caterina, un paesello calabrese di trecento abitanti sull'Aspromonte. Pur sembrando un agguato in stile mafioso, non si conosce ancora il movente né il nome dell'uomo che l'ha uccisa.
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