Nella notte fra il 15 e il 16 settembre scorso sono caduti nell’entroterra marchigiano, della provincia d’Ancona, più di 400 mm d’acqua in pochissimo tempo, ricreando un tragico e devastante quadro già visto in passato più volte. Otto le vittime finora accertate e quattro i dispersi. Ingenti i danni alle attività commerciali, mentre quelli a privati, probabilmente, non avranno mai una quantificazione completa ma, soprattutto, privati e famiglie non potranno contare su dei soddisfacenti rimborsi o aiuti.
Le Marche sembrano non trovare pace
Foto e video in rete rendono testimonianza della rabbia e della disperazione delle popolazioni. Le immagini di macchine che carambolano lungo le strade trasformate in fiumi in piena, ormai sembrano diventate un accessorio obbligato di ogni evento climatico drammatico. Il resto è l’ennesimo segno del vuoto che domina il tempo presente.
I politici fanno i politici: promettono aiuti, lanciano accuse contro chi li ha preceduti e presagi contro chi potrebbero sostituire. I funzionari delle istituzioni locali e della protezione civile prendono atto, aiutano, si danno da fare, ma molti in cuor loro si chiedono se di fronte all’ennesima alluvione non si potesse fare qualcosa per prevenire, controllare, ridurre o, bizzarrie della lingua italiana, arginare i danni.
Nella realtà appare sempre più evidente che non è tanto il clima ad essere l’emergenza, ma l’uomo, il suo operato, il suo pensiero, o meglio, alcune declinazioni del suo pensiero. Per intenderci, nel mondo delle offerte, a basso costo, del supermercato elettorale, quanto avete sentito parlare dell’emergenza climatica?
Meglio ancora: quanto avete sentito parlare di programmi a lungo termine che permettessero di creare un welfare ambientale con le stesse utopie di quelle che un tempo costruirono il welfare sanitario, al fine di:
- prevenire gli eventi e i danni conseguenti e cercare di non inquinare più questo mondo
- curare questo mondo e le vittime delle catastrofi
- riabilitare l’ambiente ferito e degli uomini feriti
Nel teatrino del supermercato elettorale – sempre le stesse offerte “prendi 3 paghi 8”, sempre gli stessi prodotti… scaduti – parlare di welfare ambientale sarebbe pretendere troppo, anche perché lo stato sociale in toto è stato sostanzialmente spazzato via dalla voracità dei profitti e delle clientele. Le Marche sembrano non trovare pace, insomma. Da settimane hanno una visibilità sui media non avuta per decenni: razzismo, sessismo, limitazione del diritto all’IVG.
Due giorni prima delle alluvioni, in data 14 settembre, un operaio di 47 anni viene ricoverato in condizioni molto gravi dopo essere stato schiacciato dalla caduta di una lastra d’acciaio del peso di mezza tonnellata. Il tutto è successo alla Fincantieri, gioiello industriale di Ancona e della metalmeccanica nazionale dove regna incontrastata la qualità totale del prodotto a danno della sicurezza, dei salari, delle vite.
Un tempo, quando accadeva un incidente alla Fincantieri, tutta la città si fermava. Un tempo, quando qualche fabbrica o qualche settore della città mostrava gravi problemi, la Fincantieri scendeva in sciopero in solidarietà. Oggi si fa un giro in rete, si mettono una mezza dozzina di commenti, qualche condivisione, si sputa in giro un po’ di odio e frustrazione e poi tutto viene dimenticato. Ma la famiglia dell’operaio della Fincantieri non può dimenticare; dimenticherà mai.
Non dimenticheranno neanche le famiglie colpite dall’alluvione, o dal terremoto di Arquata del Tronto, sul quale i balletti elettorali hanno fatto più scenografie posticce che fatti concreti. Alla fine, è tutto molto semplice e dannatamente diabolico: si dà la colpa al fato, alle avversità, alla natura maligna – in fondo siamo nella terra di Leopardi – senza pensare che nella natura l’unica cosa di maligno è l’essere umano.
O almeno l’essere umano quando è (dis)educato ad essere tale, a dimenticare la solidarietà, a guardare da un’altra parte, ad ascoltare chi urla di più cercando di non pensare a soluzioni, rimedi, azioni concrete da fare. Un essere umano costretto a prendere ordini e (dis)educato a darsi un ordine. Un’ottica che violenta e sfrutta l’ambiente in cui vive. E questo, l’ambiente, di quando in quando fa sentire la sua voce, restituendo la sofferenza e l’indifferenza subita.
Alla fine il cordoglio viene superato, le tragedie dimenticate, ed ognuno torna a vivere nel chiuso del suo piccolo ed egoistico comparto stagno. E gli eventi di uno stesso sistema vengono interpretati singolarmente, scollegati l’uno dall’altro, sintomi non letti di una stessa malattia.
Nello stesso giorno dell’alluvione, sempre nella città dorica, si sono tenute le selezioni alla locale Facoltà di Medicina. Uno scenario che si riproduce periodicamente a fine estate in tutte le sedi di ateneo che prevedono corsi a numero chiuso in un paese in cui l’accesso all’istruzione, e alla salute, e alla sicurezza (anche ambientale) dovrebbe essere garantito.
All’esterno degli edifici del campus di Ancona, un piccolo sparuto gruppo di studenti di un’associazione universitaria ha fatto la sua comparsa, con uno striscione, chiedendo più fondi, più risorse e stop al numero chiuso. Una lodevole presa di posizione, ma destinata a fallire. Ognuno ed ognuna della grande massa dei partecipanti alle selezioni universitarie aveva in testa una cosa sola: superare l’esame, giustamente. Entrare, come e comunque.
Mors tua vita mea? Magari non fino a questo punto, ma in un paese dove la mobilità sociale è ferma quasi come le caste indiane, c’è poco da meravigliarsi. Ancora si devono chiudere i processi per i disastri e le responsabilità legate all’alluvione del 2014 che devastò Senigallia e dintorni che una nuova alluvione si abbatte sulla zona. Ancora si deve aggiornare la contabilità tragica delle vittime sul lavoro. Ancora c’è chi dice che mica tutti possono fare il dottore! Ancora i più fragili sono destinati a subire le emergenze di ogni tipo, non create né dal clima né dal fato, ma solo dall’uomo.
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