È assurdo pensare di chiedere a dei professionisti con preparazioni universitaria e sempre più specialistica di lavorare percependo uno stipendio inferiore a quello degli operai in fabbrica.
La domanda è: Il gioco vale la candela?
Nel corso dell’evoluzione della professione infermieristica e delle altre professioni sanitarie si sono fatti notevoli passi avanti sulla preparazione, sulla ricerca, focalizzando l’attenzione nel creare professionisti ben preparati, iscritti ad ordini professionali e con formazione universitaria, anche post base. Si è però lasciata indietro un’evoluzione di tipo economica, complice la crisi che dal 2008 pressa il nostro paese. Ma è impensabile dover affrontare un percorso universitario, investire risorse, soldi e tempo sulla preparazione per poi percepire uno stipendio medio di 1500 € netti al mese (compreso di notti e festivi), e inoltre trovarsi a lavorare insieme a oss e altre figure di supporto, che hanno impiegato molto meno della metà del tempo e di risorse per prendere la propria qualifica e percepire uno stipendio medio di 1300 € netti al mese, che con il bonus Renzi si sono visti lievitare di altri 80 €. Buon per loro penserete, ma una differenza mediamente di 100 € con l’infermiere non rende giustizia a quest’ultimo, che ha l’onere della responsabilità sull’assistenza del paziente e una laurea alle spalle presa con sacrifici e sudore.
Questo produce un’insoddisfazione da parte dei professionisti che non sono stimolati alla progressione di carriera e alla formazione post base, perché comunque sia l’inquadramento economico non cambierebbe, anzi sarebbe un investimento senza profitto che vede crescere solo le responsabilità (tranne nel caso della dirigenza).
Va precisato che è altrettanto impensabile che una persona in Italia, qualsiasi sia il suo lavoro debba vivere con meno di 1500 € al mese, quando il costo della vita è sempre più alto. Ridicola è stata l’ultima vicenda sulla revisione del Ccnl Sanità dove doveva esserci un aumento per i professionisti, visto il blocco precedente di quasi 10 anni. Ma non è ancora avvenuto e se mai avverrà sarà per una cifra irrisoria che mortifica la professione stessa.
Il buon senso impone che gli stipendi siano proporzionati alle responsabilità
Al momento l’infermiere è inquadrato contrattualmente nel comparto sanità, proprio come lo era un tempo quando per diventarlo bastava il diploma regionale di infermiere professionale, insieme a tutti gli altri professionisti delle professioni sanitarie, ma di fatto insieme anche ad altre figure ausiliarie e di supporto che non possono essere equiparate a professionisti con responsabilità gestionale e di valutazione sulle proprie azioni.
Il buon senso e la logica impongono che gli stipendi siano proporzionati all’impegno e alla responsabilità che un professionista acquisisce nel corso dei suoi studi, soprattutto se universitari, ma al momento l’Italia mortifica i professionisti della salute (ad eccezione della professione medica che si trova inquadrata nella dirigenza aziendale) classificandoli al pari di altri operatori non laureati e con responsabilità professionali pari a zero o quasi.
Il vantaggio di portare la formazione delle professioni sanitarie all’interno delle università ad oggi non è stato per i professionisti, ma solo per le università. Che vedono crescere i propri profitti con test di accesso a numero chiuso, dove la tassa d’iscrizione lievita di anno in anno e le rette annuali spesso sono da capogiro.
Ad oggi finché il governo non prenderà una posizione sulla riqualifica economica e contrattuale dei professionisti sanitari la domanda che ci dobbiamo porre, considerando i tempi e i costi degli studi universitari e la retribuzione che si andrà a percepire successivamente, paragonata ad altri operatori, è: il gioco vale la candela?
Gaetano Sciascia, infermiere
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