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Testimonianze

Ciro, infermiere: "vi racconto la mia storia di cambiamenti lavorativi, da Nord a Sud"

di Redazione

Infermiere al letto di un paziente

Lettera aperta di un collega Infermiere alla ricerca di un modo per migliorare le cose nel contesto sanitario in cui opera.

CAMPANIA. Mi presento, sono Ciro, dal nome è chiaro che sono Napoletano; ho cambiato spesso città ed ho visto diverse realtà professionali, ho vissuto circa un anno al Nord, sei anni in Toscana, sono stato in Africa come volontario per circa un mese; da quattro mesi sono temporaneamente in comando presso un noto ospedale di Napoli.

Amo il mio lavoro e mi definisco un Infermiere specializzato in Emergenza, perchè nel mio CV ci sono 7 anni di rianimazione ed emergenza intraospedaliera sudati e lavorati con passione!

Sono impiantatore PICC ed utilizzo, se necessario al paziente, l'ecografia infermieristica, amo l'emergenza e lotto per ottenere autonomia professionale, il mio sogno sono le specialistiche cliniche e credo che quelle facciano la differenza in termini di professionalità e conseguentemente anche di aumento salariale.

Come Napoletano fin da quando ero bambino ho sempre fatto della lotta alle Mafie una ragione di vita, pertanto non so se raccontarvi in breve della mia esperienza professionale nella cittadina partenopea oppure delle inappropiatezze sanitarie che distruggono la salute dei pazienti Campani ed affossano la nostra professione.

Ho molto da dire ma vi racconterò della mia breve ed intensa esperienza nella struttura dove lavoro.

Nonostante il mio decente curriculum vitae e professionale in emergenza, a Napoli non ho avuto nessun colloquio conoscitivo, e nessuno probabilmente ha valutato la mia esperienza professionale; mi hanno letteralmente “sbattuto” in un reparto medico, è stato un impatto meno brusco del previsto, la mia capacità di adattamento mi ha aiutato e mi sono appassionato a quel lavoro in meno di un mese; è chiaro che la realtà era tremenda, mancano i lavandini, manca la carta a volte manca il sapone, non esiste il gel per le mani; in Africa ho visto di meglio, ma i pazienti meritavano molta attenzione e davano molte soddisfazioni in termini di gratificazione umana; le motivazioni a migliorare c’erano tutte, da quelle parti non si vedeva un giovane professionista umano e possibilmente comprensivo da un bel po' di anni, anche i colleghi erano molto soddisfatti della mia voglia di lavorare, mi appoggiavano ed erano contenti che il nuovo infermiere lavorasse e tappasse anche le loro lacune; in poco tempo mi hanno dato molte dritte nella gestione del paziente oncologico (tutte le loro dritte erano chiaramente da riadattare ed interpretare).

Ad un certo punto però ecco il colpo di scena: un infermiere, arrivato li da 6 mesi in struttura, viene inserito in reparto; ed ecco che mi arriva un bell’ordine di servizio che dice che devo trasferirmi in un altro settore assistenziale.

Dopo una serie di proteste anche abbastanza dure, inizio il mio lavoro in Unità Operativa; a dire il vero, anche se stanco ed incazzato, ero contento di fare l’ennesima esperienza professionale, soprattutto nel mio reparto, dove si impara a conoscere tanto.

Il problema è che la mia Unità Operativa sembra essere collocata a metà strada tra l’Africa e l’Italia, nonostante il notevole impegno della Coordinatrice Infermieristica (che ce la mette tutta combattendo le fatiche e le difficoltà di operatori e pazienti); le problematiche igieniche sono state per me pugni nello stomaco ad ogni turno: assenza del gel disinfettante per le mani, assenza di un lavandino per il lavaggio delle mani degli operatori sanitari (l'unico lavandino funzionante era nel corridoio lontano dai letti di degenza, tra l’altro dietro due porte che facevano da barriera); EBN ed EBM sembrano essere bestemmie in questo posto; Amuchina utilizzata al posto della Clorexidina, assenza totale di un lava-padelle; l’igiene dei pazienti era fatta a letto sulle classiche padelle rigide, non lavate e passate di paziente in paziente senza alcun tipo di disinfezione e norma igienica (tante le cistiti); in terapia intensiva non ne avevo mai viste tante, ad ogni cateterismo si associava matematicamente una cistite.

La polvere sulle postazioni letto (mai pulite) risaliva agli anni in cui era stato costruito la struttura sanitaria (probabilmente anni 70 a giudicare dalla struttura); il concetto di antibiotico resistenza mi pareva un concetto non preso assolutamente in considerazione; in 4 mesi non ho mai fatto un esame colturale prima di somministrare un antibiotico, assenza totale del diario infermieristico o cartella integrata, e quindi di tracciabilità dell’operato infermieristico in cartella clinica; anche un'emo-trasfusione era descritta dal medico in cartella ma non era mai descritto l’operatore che controllava e somministrava la sacca di emazie; tutto ciò che l’infermiere scriveva era tracciato in un librone unico per tutti i pazienti che descriveva per grandi linee ciò che si faceva durante il turno lavorativo; insomma la lista della spesa è lunghissima e per dirla in breve non avrei mai fatto ricoverare un mio parente in quella struttura …

Cosa ho fatto io per poter migliorare quella realtà?

Ho provato in primo luogo a tastare la sensibilità della coordinatrice in merito alle problematiche maggiori come l’assenza del lava-padelle, assenza del lavandino o gel per le mani, assenza di tracciabilità dell’operato infermieristico in cartella clinica; la coordinatrice era chiaramente al corrente di tutto; avvilita mi ha raccontato che già lei con un gruppo di infermieri ha provato a migliorare le cose, ma senza successo, chiedendo numerose volte i giusti presidi all’azienda; le risposte sono state sempre le stesse: NULLA DI FATTO!

Dopo 3 mesi nel reparto sto ancora chiedendomi cosa posso fare; per ora sto scrivendo a Nurse24.it, mi è sembrata la cosa migliore da fare…

CIRO, Infermiere.

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