La storia di una bambina inglese è diventata un caso legale, oltre che un caso clinico che umanamente interroga sul senso dignitoso della vita nonché sulla volontà e sulla responsabilità della sua fine. Le vicissitudini di Indi Gregory hanno fatto tornare in mente quelle di Archie Battersbee, il dodicenne britannico rimasto vittima di un incidente domestico che lo ha ridotto ad uno stato vegetativo, e di Alfie Evans, un bambino di due anni di Liverpool che soffriva di un disturbo neurodegenerativo legato ad un deficit nel neurotrasmettitore GABA.
Indi non ce l’ha fatta
Indi Gregory è spirata nella notte tra il 12 e il 13 novembre.
Per Archie, Evans ed Indi i giudici sono stati chiamati a decidere sulla loro sorte a causa del disaccordo tra l'équipe medica e i rispettivi genitori sull'opportunità di mantenere il sistema di supporto vitale.
Quando i medici ritengono che sia disumano ed inutile continuare a mantenere in vita persone che non hanno alcuna speranza sotto il profilo scientifico, subentra spesso il rifiuto da parte dei familiari di staccare spina dai loro cari.
Significa interrompere un rapporto umano, che si instaura in mille modi diversi, anche quando l'affettività non può essere manifestata reciprocamente e dall'altra parte non c'è neppure coscienza di esistere. Sono i legami di sangue e quelli che si creano nel cuore a rendere difficile lasciare andare chi si ama.
In forza del loro amore e della loro genitorialità, i familiari scatenano talvolta lunghe battaglie legali andando contro ogni evidenza e ogni buon senso attirando sui loro figli una notevole attenzione pubblica. Ogni volta l'opinione pubblica, chiamata in causa per empatia e per dare peso alle istanze dei genitori di turno, si divide dolorosamente ed oscilla tra ricatti emotivi e divergenze su posizioni ideologiche che riguardano il confine tra la vita e la morte, spesso senza sapere i particolari della vicenda ma sospinta soltanto dall'ondata di emozione che la notizia scatena.
E allora succede che ci si sente tutti quella mamma e quel papà. E se Archie , Evans ed ora Indi fossero figli miei? Si vorrebbe che nessun bambino morisse, che la scienza potesse l'impossibile. Da genitore poi fa male il cuore sentire il dolore di un altro genitore.
Il caso legale di Indi si è concluso, il martelletto dei giudici inglesi è stato battuto un'ultima volta mettendo fine ad ogni ricorso per prendere tempo ed allontanare l'ultima perentoria decisione. La neonata, scortata dalla polizia dall'ospedale dov'era nata all'hospice che era stato individuato per il suo accompagnamento alla morte senza dolore, è approdata in un luogo ritenuto idoneo per l'addio, tra le braccia dei suoi genitori, lontano dalla cronaca mondiale che l'ha vista protagonista nelle ultime settimane.
Indi viveva una vita artificiale
Se la vitalità, come stabilisce l'ordinamento giuridico, è l'idoneità fisica alla vita, Indi allora non aveva, per quanto possa essere crudele ed inumano dirlo, né vitalità né idoneità. Se fosse stata una bambina italiana, il nostro diritto civile avrebbe riconosciuto al soggetto appena nato una capacità giuridica non essendo la vitalità un presupposto necessario per la sua acquisizione.
Se fosse nata in Italia, Indi avrebbe avuto la capacità di essere titolare di diritti della personalità, oltre a maturare pienamente il diritto alla vita, a prescindere dalla sua vitalità. Ma era una bambina inglese. E poiché è innegabile che la sua vita fosse clinicamente incompatibile con la vita, i giudici inglesi hanno sentenziato, al di là delle ingerenze dell'Italia ritenute inopportune, che sussistono inequivocabilmente le ragioni giuridiche per porre fine alla sua vita, valutando l'interesse superiore della bambina.
Hanno considerato legittima la posizione dei medici del Queen Medical Center di Nottingham, uno dei migliori ospedali pediatrici del mondo, che l'hanno avuta in cura per otto mesi, dal giorno della sua nascita, secondo i quali continuare a darle sostegno era accanimento terapeutico e le cure palliative le avrebbero causato solo dolore . I sanitari, già autorizzati dai giudici a staccare la spina, avevano trovato tuttavia la ferma opposizione dei genitori che avevano presentato istanze di appello.
Riconoscendo che la realtà della pratica clinica è governata dai limiti della medicina - di ragionevolezza, di efficacia terapeutica e di senso – i giudici dell'Alta Corte Britannica, respingendo ogni ricorso dei genitori comprensibilmente devastati, hanno ricordato come le cure mediche devono rispettare sempre i criteri di appropriatezza e proporzionalità.
Che si deve tener conto della loro gravosità sul soggetto malato. E che nessuno, nemmeno un padre e una madre, possono richiedere o pretendere di continuare un trattamento considerato non proporzionato dai professionisti che agiscono in scienza e coscienza. Un simile trattamento si deve altresì sospendere perché non è ammessa un'irragionevole ostinazione . Lo stabilisce anche l'ordinamento italiano (legge n.219/2017).
Per impedire il distacco dei supporti vitali che la tenevano in vita e al fine di sensibilizzare le autorità giudiziarie inglesi, il Consiglio dei Ministri aveva addirittura concesso ad Indi la cittadinanza italiana con un provvedimento urgente per facilitare l'iter giuridico e burocratico per il trasferimento in Italia e farla così accedere al protocollo sanitario di un ospedale pediatrico italiano, il Bambin Gesù di Roma, garantendole cure palliative sino alla fine naturale senza tuttavia staccare la spina.
I legali italiani della famiglia Gregory hanno attivato tutte le procedure dei trattati internazionali. Si sono appellati come estrema ratio all'articolo 32 della Convenzione dell'Aja che in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori prevede la cooperazione internazionale.
Hanno altresì richiamato l'articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, secondo la quale si riconosce ad ogni individuo il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.
Hanno ripreso l'articolo 2 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena .
Secondo il parere dei legali italiani, nel caso di Indi Gregory sono stati lesi anche gli articoli 2, 3 e 32 della nostra Costituzione, che sanciscono il fondamento del diritto alla vita e della tutela della dignità umana. Non è stata rispettata nemmeno la Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo.
Occorre prendere atto dei fatti
Indi era nata con una malattia rara incurabile , la sindrome da deplezione del Dna mitocondriale (MDS). Identificata per la prima volta nel 2013 dai ricercatori italiani in collaborazione con una équipe israelo-palestinese, la sindrome fu descritta da un gruppo di lavoro internazionale in una pubblicazione scientifica sul Journal of Medical Genetics.
Indi era stata colpita dalla forma più severa, encefalomiopatica, che colpisce contemporaneamente le cellule dell'intestino e i neuroni del cervello. Si tratta di un disordine genetico, autosomico recessivo, che colpisce i tessuti degli organi principali. È caratterizzato da miopatia, epatopatia, encefalopatia. È un disturbo fatale.
Indi presentava già gravi difetti di sviluppo durante la vita intrauterina, le erano stati diagnosticati durante le ecografie in gravidanza. Mamma e papà avevano tuttavia rifiutato l'aborto proposto dai medici.
Dalla storia clinica si apprende che alla nascita Indi non respirava ed era cianotica. Il cranio era pieno di liquor che si accumulava comprimendo il suo cervello atrofico. È stato necessario rianimarla, pochi minuti dopo essere venuta al mondo, intubarla e attaccarla alla ventilazione artificiale. Non poteva respirare da sola.
Aveva crisi epilettiche per sofferenza della corteccia corticale. I medici hanno dovuto aprirle un buco nella testa per far uscire il liquido cerebrospinale in eccesso. Se anche avesse avuto qualche possibilità di sopravvivenza, quell'apertura del cranio le sarebbe rimasta per sempre, non si richiude.
Quando hanno provato a darle del latte, come si fa con i neonati, non deglutiva. L'intestino era malformato e otturato, così gliene hanno tagliato un pezzo. Per nutrirsi aveva bisogno di un sondino nasogastrico, lo avrebbe tenuto in maniera permanente. Non rispondeva agli stimoli, i movimenti erano automatici e riflessi di orientamento. Non aveva probabilmente attività cerebrale, verosimilmente non provava nemmeno dolore. Indi sarebbe morta poche ore dopo la nascita, se la natura avesse fatto il suo corso in un altro luogo del mondo o in altro tempo.
Invece Indi ha vissuto una breve vita nelle mani dei medici, senza mai lasciare l'ospedale e senza mai tornare a casa come fanno generalmente i neonati. E ha concluso i suoi giorni tra paradossi legislativi, contesa tra due culture, quella anglosassone e quella italiana, con diversi ordinamenti giuridici.
La sua vita senza vitalità è stata appesa alla decisione dei giudici, sospesa tra legge e morale, diritto e valori, sentenze e amore. L'Associazione italiana Pro Vita, che con i suoi legali si è occupata del caso, ha definito la decisione dei giudici una sconfitta per l'umanità, la medicina, la scienza e la civiltà occidentale.
Seppur non sia stato ancora universalmente stabilito a chi spetta l'ultima parola in questi drammatici casi umani - se ai familiari, ai sanitari o allo Stato – occorre riconoscere tuttavia che davvero non si può vivere, come in questo caso, se sono presenti geni nucleari difettosi che impediscono ai mitocondri delle cellule di conservare il loro Dna, rendendoli così incapaci di produrre energia a sufficienza per supportare la funzionalità di organi vitali come i muscoli, il fegato e l'intestino, il cuore e il cervello. La malattia provoca gravi malformazioni che impediscono anche la formazione del nervo ottico e del corpo calloso che collega i due emisferi del cervello.
Indi è stata una bambina sfortunata, ereditando due copie mutate del gene difettoso, SLC25A1, da entrambi i genitori. Ai medici e agli infermieri non resta che chinare il capo in segno di rispetto e di cordoglio, senza vivere il caso come una sconfitta della medicina ma piuttosto riconoscendo le sue grandi capacità di ricerca e di diagnosi, sapendo di aver fatto tutto il possibile in questi otto mesi di cura. E al mondo non resta che farsi doverosamente da parte e stare in silenzio di fronte al dramma che la natura talvolta, per caso, crea con i suoi difetti.
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