Sedazione palliativa non significa eutanasia. È questo che tiene a precisare Cristian Riva, infermiere palliativista, in un approfondimento - ripreso anche dal quotidiano La Stampa - redatto sul suo blog "Coraggio e Paura" dopo l'accorato appello ai malati terminali di Marina Ripa di Meana, scomparsa il 5 gennaio scorso. La sedazione palliativa è un atto terapeutico dovuto che non procura la morte del paziente, nemmeno la anticipa
. Un argomento sul quale ancora c'è molto da chiarire e sul quale gli infermieri hanno molto, molto da dire.
Sedazione palliativa terminale: Necessità di informare e fare chiarezza
La scomparsa di Marina Ripa di Meana con il suo generoso appello a tutti i malati terminali ha, ancora una volta, fatto emergere quanto ci sia bisogno di informazione in ambito palliativo e di fine vita.
Ho letto post di persone meravigliate, allibite di fronte alla possibilità di praticare la terapia sedativa in condizioni di terminalità. Ma in Italia si può?
. Di per sé la domanda già nasconde la netta confusione: sedazione palliativa non significa eutanasia.
È un atto terapeutico dovuto che non procura la morte del paziente, nemmeno la anticipa (per esperienza a volte prolunga la vita di qualche giorno, poiché è come togliere dai carboni ardenti una persona a piedi scalzi). L’esempio che ho fatto mio e che spesso propongo nella mia quotidianità è il seguente:
È come se il vostro caro stesse cadendo da un grattacielo. La caduta non la possiamo fermare, ma venti materassi “all’atterraggio” dobbiamo metterli onde evitare lo schianto sull’asfalto
Mi si chiedeva oggi chi sceglie quando attuare la sedazione, a chi spetta il compito di decidere. Cercherò di essere il più esaustivo possibile premettendo che ogni situazione è diversa dalle altre, ogni porta che varchi ti apre mondi (e difficoltà) totalmente differenti.
Può essere il paziente a decidere, a priori, la sedazione palliativa (a priori intendo che concorda già con noi tale terapia nel momento in cui lo stesso sarà invaso da sintomi inaccettabili e refrattari alla fine della vita).
Non è quasi mai il dolore fisico che porta la persona a scegliere di essere sedata poiché il sintomo dolore è spesso l’ultimo dei nostri problemi anche grazie alle molteplici possibilità che la farmacologia odierna ci mette a disposizione, grazie all’utilizzo di farmaci oppiacei e non in combinazione con altre molecole in base alla sede, alla tipologia, al comportamento, all’ascolto del paziente (la descrizione del dolore è fondamentale).
Formulazioni a rapidissima azione anche per il breakthrough pain (BTcP, ovvero episodi di dolore episodico ma molto intenso) somministrabili a livello sublinguale, o sottoforma di spray nasale arrivando persino a compresse “a bastoncino” da applicare attraverso la mucosa della cavità orale (quest’ultima formulazione permette al paziente di interrompere la somministrazione del farmaco, a sintomo risolto, ancor prima di aver raggiunto l’intera dose della compressa, semplicemente interrompendo il contatto con la mucosa orale).
Invece altri sintomi quali una stanchezza inimmaginabile (è uno degli esempi ma ne potrei citare a decine) che rende la persona dipendente in tutte le attività della vita quotidiana può essere già una condizione di tale stress psicofisico e di angoscia refrattaria ad ogni terapia (in condizioni di terminalità) che pone assolutamene l’indicazione alla terapia sedativa.
Così come l’avere troppa paura, un’angoscia che diventa invivibile, incontrollabile, ect… Il paziente è il nostro faro guida. D’altronde noi siamo lì per lui e non faremmo cure palliative se non assecondassimo le sue richieste, ove lo stesso alla fine della vita potrà essere invaso da tale e tanta sofferenza da non essere piú gestita con i farmaci di supporto tradizionali o sintomatici. Ove il paziente non è a conoscenza della sua condizione (spesso si apprende la diagnosi ma non la prognosi e in molte persone, nonostante l’evidenza, scatta un meccanismo di negazione che li protegge da una realtà troppo dura) è il sintomo o più sintomi refrattari che decidono per noi. Ad esempio una dispnea non più trattabile (difficoltà respiratoria) andrà sempre gestita sedando il soggetto onde evitare che la morte con sensazione di soffocamento si presenti in condizioni di vigilanza.
Il nostro obiettivo è la qualità di vita prima e di morte poi, che devono essere assolutamente dignitose. Ovviamente per raggiungere un'alleanza terapeutica tale (anche con i familiari) l’attivazione delle cure palliative domiciliari (io lavoro da 15 anni solo a domicilio) dovrà essere il più precoce possibile cosicché si costruisca insieme un percorso di alleanza terapeutica con e per il paziente che, ripeto, decide per se stesso se é nelle condizioni di farlo (consapevolezza o condizioni psicofisiche); se non lo fosse più ma ha già concordato con noi precedentemente la sedazione in determinate condizioni (sintomi refrattari) é nostro obbligo clinico, etico e giuridico mantenere il suo mandato.
Ove non c’è consapevolezza alcuna e nessun consenso sarà sempre il sintomo refrattario che ci guiderà poiché mai e poi mai un mio paziente è morto tra atroci sofferenze, altrimenti vorrebbe dire non fare cure palliative ma altro. Il tutto accompagnato da un grande lavoro relazionale, educativo e di supporto alla famiglia.
Grazie Marina, il tuo appello servirà a molte persone, perlomeno ad incuriosirle e di conseguenza ad approfondire l’argomento.
Cristian, da Coraggio e paura
Cristian Riva
1 commenti
Titolo del commento? Non trovo un titolo adeguato.
#4
Gentile Francescom,premetto che sono apertissimo al confronto e,soprattutto, alla critica che(quando ben scritta e motivata)diventa veramente costruttiva per entrambe le parti.Lei però mi deve spiegare dove io ho scritto che somministro farmaci di mia spontanea volontà senza alcuna prescrizione o indicazione medica;così come mi deve spiegare dove ho scritto che l'infermiere é sempre più empatico e più bravo.Mi creda,ho letto e riletto ancora il mio post e non ho trovato nulla di tutto ciò.A mio parere esistono, come in ogni ambito, infermieri assolutamente incapaci così come medici che avrebbero dovuto fare altro nella vita(ne avrà conosciuti anche Lei).Non ho mai parlato nel post di me in prima persona ma di noi.Lavorare a domicilio nell'ambito del fine vita presuppone,al fine di garantire il meglio per il paziente e il nucleo familiare,il lavoro in equipe ove ognuno ha i propri spazi di autonomia,ben delineati,definiti e soprattutto ben noti al paziente e alla famiglia,con il fine di garantire qualità ad un servizio attivo h24 7/7.L'infermiere che si occupa di fine vita a domicilio diventa inevitabilmente il collante tra paziente-equipe-famiglia poiché varca quella porta ogni giorno,spesso più volte al giorno.É un dato oggettivo non é una critica rivolta a qualcun altro.E un bravo infermiere a domicilio fa spesso la differenza in tutto il percorso assistenziale poiché é in grado di informare al meglio l'equipe e il palliativista sull'andamento della situazione(non parlo solo di sintomi,ma di tutte quelle variabili,quei dubbi che spesso vengono confidati a chi é più presente in termini di tempo).Cosa le da così fastidio?Il fatto che un semplice infermiere possa scrivere e non solo eseguire?Ho fatto leggere il suo post al medico palliativista che lavora con me da anni ed é rimasto basito.Cosa sto togliendo alla sua dignità e alle sue competenze?Me lo spieghi poiché onestamente,non ne avrò le capacità,io non l'ho capito.La ringrazio e Le auguro un sereno 2018.