Il silenzio dell'anima in mezzo al frastuono della rianimazione
La lettera di un infermiere di terapia intensiva Covid-19 ad un paziente
Caro Francesco, sai è difficile per me scrivere in questo momento. È difficile per me, che invece adoro scrivere e non vergognarmi delle mie emozioni. Sono loro che mi permettono di "sopravvivere" a questo continuo e incessante bombardamento.
Ma vedi, anche a quest'ora e guardando un servizio in TV non è possibile non pensare a te. Quel giorno che ci siamo conosciuti eri molto spaventato, avevi paura… abbiamo provato di tutto. Poi pian piano, con una super maschera, siamo riusciti un po’ a rallentare il tuo respiro. Per un po’ quel numero blu, amato e odiato allo stesso tempo, ci ha fatto stare tranquilli. E ci siamo conosciuti meglio.
Mi hai raccontato dei tuoi figli, mi hai raccontato che ce la facevi, mi hai raccontato del Covid e intanto mi tenevi stretta la mano. Sconosciuti fino a quel momento, ma ho subito percepito il tuo bisogno di aggrapparti a qualcosa, a qualcuno. Ho subito percepito il tuo bisogno, che in quel momento forse era anche il mio .
Eh sì, perché anche noi spesso ci aggrappiamo a voi. Voi siete la nostra meta . Voi siete il nostro obiettivo. Voi siete il nostro cammino. Voi siete il nostro orgoglio. Voi siete… e noi siamo. Insieme.
Hai provato, anche se affaticato e stremato, a lanciare un appello:
Dite fuori che il Covid esiste ed io son qui, fuori ho tre figli
Queste son le parole che, da padre e da uomo, non riesco a far uscire dalla mia testa. Queste sono le parole che come un tamburo suonano nelle mie orecchie. Queste son le parole che io vorrei gridare a chi continua ancora a dubitare.
Queste son le parole che fan tanto male. Queste son le parole di un uomo che lotta per chi fuori lo aspetta. Queste sono le parole che tanto mi fanno star male, perché quella promessa io non l'ho mantenuta . Quella promessa che ce l’avresti fatta si è frantumata sotto il peso della speranza. Quella promessa che ce la facevi anche quando di corsa un sollievo ti abbiamo dato. Sperando che una macchina potesse salvarti. Una macchina che gira veloce, ma che i polmoni fa riposare.
I giorni passavano e tutti chiedevano come tu stessi. Io per un po’ ti ho evitato, io per un po’ passavo distante dal tuo letto. Ti guardavo da lontano lottare e pensavo a cosa si possa provare quando si affronta l'impossibile e nello stesso tempo si è lontani dalle persone più care. Pensavo alla solitudine, tua e dei tuoi .
Non un abbraccio. Non una parola. Non uno sguardo. Non una carezza. Nemmeno una lacrima. Il vuoto. Il nulla. Il silenzio dell'anima in mezzo al frastuono della rianimazione.
Sai Francesco, è questo che di questa guerra fa più male. È questo che di questa battaglia ritengo più crudele. Nemmeno l'ultimo saluto . Nemmeno l'ultimo perdono. Nemmeno l'ultimo ti amo. Nemmeno l'ultimo respiro addosso. Nemmeno il suono dell'ultimo battito.
Niente... c'è solo quel maledetto numero blu che scende di corsa e comincia a suonare. Ma non è un suono normale. È un suono angosciante, che da acuto e strillante diventa cupo e assordante. E noi lì. Noi lì che invano cerchiamo. Noi lì, che aspettiamo.
Scende il silenzio . Un brivido freddo, anche se le tute calore ci danno, invade le carni. Devasta il cervello. E abbatte la corazza.
Le promesse sono infrante, caro Francesco . La tua insieme a quella di tanti altri. È di questo che io voglio parlare. Non di me, non di noi. Ma di quelli che come te non ce l'han fatta . Di quelli che come te il Covid ha ucciso.
Di quelli che come te han perso la battaglia. Delle promesse, della vita, della famiglia, di volersi bene, della speranza. Di questo io voglio parlare
Lo devo a te… lo devo ai tuoi figli. Lo devo a me, che ogni giorno mi alzo e so quello che devo affrontare. Lo devo a noi, cari colleghi. Questa battaglia noi dobbiamo vincerla . Lo dobbiamo a Francesco… e a tanti altri. Lo dobbiamo alla vita.
È il nostro lavoro la nostra speranza .
Nicola De Giosa – Infermiere
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