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cinema e spettacolo

Io, capitano

di Giordano Cotichelli

Un’altra pellicola di Garrone che chiama all’arte e alla denuncia, alla bravura della narrazione e dell’interpretazione, eventi rari tra i prodotti nazionali. Garrone è abituato a queste sfide. Con "Io, capitano" questa volta Garrone affronta il tema dell’emigrazione. O meglio, torna sulla questione già affrontata in “Terra di mezzo”, ma in questo caso lo fa seguendo il percorso di due adolescenti in fuga dal Senegal – Seydou e Moussa, verso l’agognata Europa. Il suo è quasi un road movie nella migliore delle tradizioni, carico di tensione e disperazione, plasmato con i colori della solidarietà, della speranza e da un senso di appartenenza identitaria che si fa comunità prima ancora che identità.

Non è un’opera didascalica, né di controinformazione

L’80^ Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia si è conclusa. Lo scenario è stato in buona parte quello di sempre. Sul red carpet si sono alternati i sorrisi di divi e dive di ogni genere, e di tanti profittatori del momento. Più facile farsi vedere nello sfavillio di un evento internazionale che non nella quotidianità misera di questo paese.

io capitano

Locandina di "Io, Capitano" pellicola di Matteo Garrone

Scontato anche il solito contorno di polemiche interne alla fabbrica dei sogni, con alcune novità di contesto.

Qualche prode attore ha fatto sentire la sua voce a difesa del patriottismo scenico, in relazione all’assunto che il ruolo di un personaggio italiano deve essere dato ad un italiano, e non ai figli di una terra straniera, come nel caso della parte di Enzo Ferrari, nell’omonimo film, assegnata allo statunitense Adam Driver.

L’invasione etnica è iniziata dalla celluloide? Non è dato sapere.

Certo fa un po’ strano vedere qualcuno preoccuparsi oggi dell’italianità cinematografica, mentre non ha trovato mai il tempo, per farsi ben sentire, in tutte quelle occasioni quando decine e decine di fabbriche italianissime sono volate oltre frontiera per pagare meno tasse – o non pagarle affatto -, per pagare meno il lavoro, e per il solito meschino profitto personale a danno della collettività.

Si chiama deindustrializzazione nazionale fatta a colpi di delocalizzazione. Del resto, cosa si può pretendere di più da un festival sennò vagonate e vagonate di mondanità tossica, qualche bella dichiarazione artistica, palate di soldi che girano, ed un po’ di perbenismo peloso che mostra una sorridente – e brava – attrice, che fa l’occhiolino da dietro un ventaglio con su scritto: “Free Assange”, per ricordare ai più una storia di sopruso e di violenza che buona stampa italica non riesce a trovare mai occasione per ricordare.

Quanto detto non rappresenterebbe ad ogni modo una novità e in buona parte potrebbe essere riutilizzato per la prossima mostra che ci sarà, e quella seguente, e quella seguente ancora; aggiungendo la nota che, anche quest’anno, alcuni bei titoli hanno reso omaggio ad attori e registi, sceneggiatori, scenografi e tutto il mondo operaio attivo dietro la cinepresa.

Qui ci si limiterà unicamente a tessere le lodi della pellicola – Io, capitano - che ha vinto il Leone d’Argento, quello alla Regia di Matteo Garrone e il Premio Mastroianni al miglior attore protagonista Seydou Sarr. Fra i tanti invitati del cast doveva essere presente anche Henri-Didier Njikam, ma il suo visto è stato negato dall’Ambasciata italiana in Marocco per paura che potesse, con la scusa della mostra del cinema, transitare per il territorio italiano e darsi alla macchia come migrante clandestino. Va da sé che, in questi drammatici giorni per le persone del paese dell’Atlante, devastato da un gravissimo terremoto, è da augurarsi che la patria rappresentanza all’estero dell’italica cultura abbia dato, senza dubbio alcuno, miglior prova di solidarietà internazionale verso le vittime del sisma.

Alla fine, resta il film. Un’altra pellicola di Garrone che chiama all’arte e alla denuncia, alla bravura della narrazione e dell’interpretazione, eventi rari tra i prodotti nazionali. Garrone è abituato a queste sfide, attraversando l’immaginifico del raccontare storie e fiabe (Pinocchio e il Racconto dei racconti), la desolazione della periferia metropolitana con il suo carico di disumanità e di dignità allo stesso tempo (Dogman), o la violenza del controllo del territorio da parte della criminalità organizzata (Gomorra), con la pedagogia delle armi offerta a chi è stato abbandonato.

Come Caivano, qualche giorno fa ha ricordato. Questa volta Garrone affronta il tema dell’emigrazione. O meglio, torna sulla questione già affrontata in “Terra di mezzo”, ma in questo caso lo fa seguendo il percorso di due adolescenti in fuga dal Senegal – Seydou e Moussa, verso l’agognata Europa. Il suo è quasi un road movie nella migliore delle tradizioni, carico di tensione e disperazione, plasmato con i colori della solidarietà, della speranza e da un senso di appartenenza identitaria che si fa comunità prima ancora che identità.

Lo scenario è quello di una moderna odissea attraverso le sabbie del Sahara e le onde del Mediterraneo, in cerca della terra promessa, seguendo le sorti di due ragazzi che sfidano la tranquillità, ma anche la miseria, di una delle tante baraccopoli del mondo povero. I due, al momento di partire, conoscono poco del loro viaggio. E in buona parte è anche drammaticamente sbagliato. Non per questo si arrenderanno a non sognare l’utopia di un futuro migliore, come ogni persona ha diritto di fare.

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