In passato, la malattia era vissuta con un senso di vergogna, quasi una colpa da espiare, nessuno doveva sapere. Oggi, invece, i tempi sono cambiati: la malattia viene raccontata nei film, nei libri, sui social, nelle mostre fotografiche. Il paziente si racconta per sentirsi meno solo, per dar voce al proprio dolore, alle proprie paure, perché a volte scrivere serve per tirar fuori il mostro che si ha dentro e renderlo più piccolo, più accettabile. Un nemico meno grosso da combattere e da condividere con persone vicine e con amici.
I selfie della malattia per raccontare il proprio vissuto di paziente
Nascono i gruppi sui social, gruppi popolati da pazienti, parenti, sanitari. Gruppi in cui ci si racconta, si chiedono informazioni, si cercano i professionisti più validi, si ringrazia i medici e gli infermieri incontrati in corsia.
È così che cambia il rapporto tra paziente e professionisti sanitari. Medici e infermieri non possono più imporre il proprio potere, ma devono invece ascoltare il paziente e il loro modo di vivere la malattia e il dolore, perché ogni paziente è unico.
Il medico, anche il più competente e aggiornato, deve accettare che la sua scienza – sotto la vigilanza della sua coscienza – non rappresenta più l’unico canale informativo aperto al paziente; egli propone il percorso terapeutico e le eventuali alternative, ma non le impone; eventualmente può offrire un consiglio, che il malato non è tenuto a osservare. Il paziente si informa e spesso cerca una seconda opinione
dice Sandro Spinsanti, direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities di Roma.
Ed è qui che si gioca la partita dei social e della rete in generale. Un paziente a cui è stata fatta una qualsiasi diagnosi s’informa, cerca su internet e sempre più spesso arriva di fronte ai professionisti della salute con dei preconcetti.
Oggi il cittadino è soggetto a un grosso rischio di confusione e senso di paralisi rispetto alla presa di decisioni, per questo c’è bisogno di professionisti in grado di supportare il paziente anche nelle questioni più difficili. Non possiamo continuare a nasconderci e a ridurre il tutto a questioni di difesa medicolegale.
Secondo Spinsanti per interrogarsi sul valore che vogliamo dare al concetto di empowerment nella relazione tra medico e paziente dobbiamo rimettere in discussione quei modelli fasulli di empowerment, purtroppo molto diffusi nella pratica clinica, nei quali il consenso informato si riduce a una mera procedura burocratica per tutelare il medico e la struttura. La questione non è chi comanda nel processo di cura, ma come percorrere insieme la strada che porta a decisioni condivise. Basterebbe farsi la domanda: “Che cosa vuole sapere il malato che ho davanti a me?”
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