Sono tanti i motivi che portano a diventare infermiere; tanti, oggi, sono anche i motivi per cui non si dovrebbe diventarlo. Ma questo è un altro paio di maniche. Leggiamo la storia di Cecilia, che è diventata infermiera nonostante questo non fosse nei suoi piani.
Storia di un’infermiera
Era una strana mattina di aprile, il cielo faceva i capricci e io mi ero svegliata da poco, controvoglia. Sapevo che avrei dovuto passare l’ennesima giornata in cerca di un lavoro. Più facile trovare un ago in un pagliaio, di questi tempi. Nonostante o malgrado gli studi. Insomma, entusiasmo sotto le pantofole.
Aspettando che si intiepidisse il caffè sentivo vibrare il cellulare nell’altra stanza. “No, prima del caffè non sei in grado di sostenere una comunicazione, lo sai”, pensavo. “Sì, però sono mesi che spargi curricula, magari è qualcosa di lavoro. Dovresti rispondere”.
Inciampando come mio solito nello stesso benedetto mobile che è in quell’angolo da anni, riesco a rispondere prima che dall’altro lato riattacchino. “Cavoli, che tenacia”, mi dico, “io avrei abbandonato molto prima la chiamata”.
Cercando di dare un tono più o meno presentabile alla mia voce, rispondo; non senza titubanza, comunque.
Era Chiara. Altro che ipotetico datore di lavoro. Sfumata in tre secondi netti l’adrenalina da colloquio.
Sì, però Chiara non aveva il suo consueto accento allegro e tenero al tempo stesso. (La tenerezza, la tenerezza è la caratteristica peculiare di Chiara, almeno per me).
Piangeva a singhiozzi e tra le sue parole confuse sono riuscita a decifrare solo “Luca… peggiorato… ospedale”.
Ospedale. “Diamine”, ho pensato (in verità ho pensato termini molto più volgari, ma ve li risparmio). Ne ho visti in quantità industriale di ospedali in vita mia. Da bambina ho completato tantissime “tessere fedeltà” del pronto soccorso, perché grazie ad un’indole a metà strada fra lo spericolato e il goffo trovavo sempre modi nuovi per farmi del male.
Poi sono iniziati i malanni di praticamente tutti i miei familiari più stretti, a rotazione. Per cui sì, dell’ospedale non sentivo propriamente la mancanza.
Luca, cugino di Chiara, ma praticamente un fratello per lei, lo conoscevo. Sapevo che era nato con una malattia genetica degenerativa, che era in carrozzina da anni e che aveva una grande passione per il basket. Ma a quel “peggiorato” proprio non riuscivo a dare un senso. L’avevo lasciato pochi giorni prima che si stava spazzolando mezza teglia di lasagne al forno e niente, proprio niente poteva far sospettare qualcosa di brutto.
Mi sono vestita alla bell’e meglio e l’ho raggiunta, in ospedale. La cosa che più mi ha stupita di me stessa è che fin da subito sentivo di essere più preoccupata per lei che per lui.
Arrivata in ospedale ho scoperto che Luca era ricoverato in terapia intensiva, era grave, non era più in grado di respirare da solo ed era attaccato ad un numero imprecisato di macchinari.
Chiara, legatissima al cugino, era sconvolta. Più piccola del solito, quasi come se il dolore la stesse consumando, centimetro per centimetro, da dentro. Certo, se un dottore ti dice che un tuo caro ha al massimo tre-quattro giorni di vita dubito che la reazione logica possa essere un’altra.
Io capivo poco di quel che dicevano i dottori, quello che capivo era che dovevo stare lì. Stavo lì per l’amicizia che mi legava a Chiara piuttosto che per la situazione critica di Luca. Mi sentivo in colpa a pensarlo (ed è così ancora oggi), ma per me era più importante che lei avesse qualcuno che le ricordasse di mettere qualcosa sotto i denti o di farsi una doccia. Insomma, che si prendesse cura di lei, mentre lei si prendeva cura di lui.
Stavamo in ospedale tutto il tempo possibile, notte compresa; catechizzate sull’igiene delle mani e imbacuccate come palombari fra camici, cuffie e mascherine, eravamo lì. E lui teneva botta. In barba alle previsioni nefaste dei medici, Luca un po’ alla volta migliorava.
Passavano i mesi e ogni giorno vedevamo più gli operatori dell’ospedale che i nostri familiari. Tutti i giorni Chiara era con Luca, che riprendeva a mangiare nonostante la tracheostomia e tutti i giorni io ero con lei.
Non c’era niente di strano, mi sembrava normale. Per il bene che le volevo (e che le voglio), quello era il mio posto, così come lo era il suo accanto a Luca.
Nemmeno la mia goffaggine (che no, non mi ha abbandonata) mi ha impedito di “timbrare il cartellino”: ero in ospedale anche con una gamba rotta. Pensandoci bene era il luogo ideale; cosa che Luca non ha perso occasione di farmi notare più di una volta, mentre il suo senso dell’umorismo rifioriva giorno per giorno.
Invece di incontrarci al pub, noi ci incontravamo in quella stanza d’ospedale. Brindavamo a succo di pera e ci abbiamo persino guardato le partite dell’Italia, fra quelle mura.
A volte le ore erano interminabili. E i pasti disgustosi. Andare avanti a pizza d’asporto, però, non era più affrontabile.
È stato in quelle ore durante le quali era difficile trovare un diversivo che ho cominciato a guardarmi intorno con più attenzione. Abbassato un attimo il livello di allerta per l’umore della mia amica, ho allargato il mio orizzonte.
Credo sia successo tutto lì, in quel reparto
Se non è stato lì, proprio non so darmi altra spiegazione di come io sia finita a fare l’infermiera. Io, che dopo un rapporto conflittuale con le scienze, finito il liceo avevo giurato di escludere dalla mia vita numeri e teoremi, cellule e molecole.
Sempre troppo impegnata a cercare “la mia strada” chissà dove, sempre troppo assorta nel mio mondo, fra le nuvole, non mi rendevo conto che probabilmente stavo solo sbagliando prospettiva.
Dell’infermiere ho sempre avuto un rispetto ossequioso. Anche da “laica”, ho sempre creduto che il suo fosse un ruolo molto complesso e senza tregua. Li avevo già visti lavorare, da bambina, quando cercavano di distrarmi mentre qualcuno mi ricuciva un ginocchio, da (quasi) adulta, quando si prendevano cura delle mie nonne, di mio fratello, di qualche altro parente malandato.
Li avevo visti, ma probabilmente non li avevo mai guardati.
Non potendone più di contare le mattonelle della stanza, quando Luca e Chiara si appisolavano io cominciavo ad accorgermi di molti più aspetti del lavoro da infermiere.
Chi dallo spirito allegro e chi un po’ più burbero, erano tutti instancabili, operosi come delle api e con la capacità di spaziare da una cosa semplicissima ad una cosa complicatissima con la stessa facilità con cui ci si allaccia una scarpa.
”Che bravi che sono”, mi ripetevo. Sorvolavo su qualche episodio discutibile, perché mi rendevo conto di quanto fossero umani, prima di tutto. Nel bene e nel male del concetto.
Sta di fatto che la mia ammirazione nei loro confronti cresceva; non solo per la pazienza con cui cercavano di far capire ad alcuni parenti che no, il tubo della flebo non si taglia con le forbici, nemmeno se l’infusione è finita, o per la perizia con la quale broncoaspiravano Luca permettendogli di ritornare a respirare. Credo fosse la perseveranza la cosa che più mi colpiva.
Per me la perseveranza è una cosa molto potente. Ad esempio, permetteva loro di non prendere a calci nel sedere un medico che non aveva voglia di scrivere di suo pungo la terapia da somministrare (a volte avrei voluto farlo io; prendere a calci una certa tipologia di medico, dico).
Con la perseveranza riuscivano a “mettere pezze” dove ce n’era bisogno e continuavano ad esprimere la loro professionalità nonostante la sfiducia che, a volte, velava i loro volti.
Una volta cominciato a guardarli, gli infermieri, cercavo più tracce possibili di umanità in loro. Così, perché mi piace. E perché non ho mai creduto che gli infermieri siano dei Santi o dei missionari, ma uomini e donne. Particolarmente coraggiosi e perseveranti, ma uomini e donne.
Vedevo (e ogni tanto origliavo, confesso) quanto fossero contrariati per uno stipendio che non gli permetteva di riparare la macchina entro il mese corrente e probabilmente nemmeno entro quello successivo, per la mancanza di ferie da tempo immemore, per la turnazione massacrante. Percepivo la desolazione quando dovevano improvvisarsi idraulici, perché il tecnico non arrivava mai a sistemare il rubinetto dell’infermeria. Contrariati e desolati, ma sempre operosi.
Non era giusto che fossero loro a fare cose che avrebbero dovuto fare tecnici, operai e manutentori; eppure lo facevano, perché “le cose da sole non si aggiustano”, mi disse Guido, infermiere. Non faceva una piega. Oddio, analizzando la situazione le “pieghe” erano e sono tante in realtà, ma non amo piagnistei o polemiche e la risolutezza di Guido mi è piaciuta. Zero fronzoli, cento per cento concretezza.
Ho provato ad immaginarmi per un secondo un ospedale senza infermieri. Sarebbe l’emblema dell’immobilità.
Se si fermassero gli infermieri, si fermerebbe tutto, qui dentro. Io non sarei mai in grado di fare quello che fanno loro. Che bravi che sono
Nelle lunghe ore passate in ospedale ho iniziato anche a pensare un po’ a me, al fatto che dovrei smettere di continuare a sentirmi inadeguata, a ripetermi che “io non ce la potrei mai fare”.
Un colpo di reni e d’orgoglio, l’ammirazione per la professione, la possibilità di “incontrare” le persone in maniera profondissima; forse è stato questo mix che mi ha portata a frequentare Infermieristica.
Un corso di laurea del quale, tra l’altro, l’intensità è sconosciuta ai più. Se non lo frequenti, non lo puoi sapere. Se non ti ci cimenti, non puoi avere minimamente idea di cosa comporti diventare, fare ed essere un infermiere.
A parte quelli che “perché, per fare l’infermiere ci vuole una laurea?!”, gli altri che lo sanno, non si rendono veramente conto di quanta responsabilità abbia un infermiere. Proprio non possono. Stentavo a crederci io stessa, che ormai c’ero dentro.
Perché si diventa infermieri dipende molto dalla storia di vita di ciascuno, credo. E dall’indole. C’è chi diventa infermiere perché lo sente dentro fin dalla tenera età, chi perché sente di doversi rendere utile, chi perché ne fa una passione viscerale.
Non esistono strade giuste o sbagliate per arrivarci, immagino. A me piace pensare di aver preso una “panoramica”; quel che conta è che l’infermiere lo devi fare per te stesso, prima che per gli altri. Devi avere cura di curare te stesso per poterti prendere cura dell’altro nel modo migliore possibile.
È complicato, tremendamente complicato, per un’innumerevole serie di ragioni che, sono sicura, non ho bisogno di elencarvi. Le tocchiamo ogni santo giorno della nostra vita, professionale e privata. Voglio però credere che sia utile, ogni tanto, tornare indietro con i ricordi a quando qualcosa dentro ci è scattato; forse può essere una fonte di energia nuova in un momento di particolare stress, lavorativo e non.
Forse no. Forse basterebbero più soldi in busta paga, le giuste ferie e la giusta considerazione. Cose sacrosante e imprescindibili, per le quali dobbiamo continuare a lottare, ma mi piace pensare che certe ferite dell’anima vengano sanate solo con il ricordo di un entusiasmo che è stato nostro e solo nostro. Prima che qualcuno malgovernasse praticamente ogni cosa governabile e contribuisse in larga parte al malcontento che impera oggi.
I ricordi non mettono il pane in tavola, ma io ho bisogno anche di mettere qualche cerotto sull’anima, ogni tanto. Non so voi…
Cecilia, Infermiera
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