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Demansionamento. Un tentativo giustificatorio a Cass. VI sez. Penale n. 14603 del 15.04.2010

di Avvocatura di Diritto Infermieristico

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ROMA. Tra le recenti polemiche suscitate dalla comunità infermieristica italiana sulla questione del demansionamento e sull’eterostima della nostra professione, acuite proprio in questi giorni (aprile 2014) si ricorda una sentenza che il popolo infermieristico non ha ancora digerito e che per molti costituisce la prova dell’umiliazione professionale a carattere sociale che spesso la categoria infermieristica è costretta a sopportare.

La sentenza in questione è la n. 14603 del 15.04.2010 della Suprema Corte Penale.

 

La dipendente di una casa di riposo, assunta in qualità di coordinatrice del personale, è stata accusata di esercizio abusivo della professione di infermiera perché:

 

  1. Aveva tentato di praticare un prelievo di sangue senza riuscirvi;
  2. Aveva praticato sporadicamente ed in assenza dell’infermiere delle iniezioni intramuscolari e insuliniche.

 

La Corte di Cassazione penale la assolve per i motivi che si riassumono:

 

1. Sul prelievo vi erano carenze di prove in quanto l’unica teste escussa affermò che non aveva visto l’imputata bucare il braccio del paziente ma semplicemente notò l’imputata vicino al paziente e notò pure il braccio del paziente ecchimotico, per cui agì per deduzione non per certezza;

 

2. Circa le iniezioni intramuscolari e insuliniche, queste sono state praticate sporadicamente non in qualità di infermiera, ma pro bono essendo l’imputata retribuita esclusivamente come coordinatrice. Del resto, afferma Cassazione, la somministrazione dei farmaci avveniva all’interno della casa di riposo (non di una casa di cura) come di solito avviene per questi pazienti anziani che nelle proprie abitazioni private si automedicano cioè grazie all’aiuto dei parenti riescono a curarsi senza accedere a forme di assistenza professionale esterne, spesso a titolo oneroso. In poche parole l’attività non lucrativa (cioè l’assenza del vantaggio richiesto quale elemento costitutivo del reato) denotava la natura della prestazione come aiuto nell’autosomministrazione, essendo gli ospiti della casa di riposo autonomi nella somministrazione dei propri farmaci. Del resto i cittadini che si autoiniettano i farmaci a casa per curare malattie croniche come il diabete, per esempio, non devono necessariamente chiamare un infermiere abilitato, ben potendo autosomministrarsi il farmaco. Infatti, spesso, è l’infermiere del centro antidiabetico che insegna al paziente e al parente o al convivente del paziente o, in taluni casi, ad amici o vicini di casa o volontari, come somministrare il farmaco senza che ciò comporti induzione di reato. Nel caso di specie, la condizione di bisogno dettata dalla inabilità senile di taluni pazienti ha giustificato coloro che, benché dipendenti della casa di riposo, hanno fornito assistenza o aiuto al bisognoso (come se si trattasse di un parente) benché l’aiuto si fosse consumato nelle prestazioni che, stricto sensu, sono infermieristiche. La ratio giustificatrice sta nel fatto che l’assistenza avviene in ambito privato e circoscritto nella propria dimora (casa di riposo non casa di cura destinata, invece, alla cura delle malattie dove l’intervento infermieristico è diagnostico, preventivo e terapeutico) alla stregua di un parente o di un volontario che offre gratuitamente mero aiuto sostitutivo dell’inabilità o incapacità di auto somministrazione dell’interessato.

 

3. La qualità di paziente come soggetto fruitore di prestazioni sanitarie, viene meno all’interno di una casa di riposo poiché scopo della casa di riposo non è la cura delle malattie ma la garanzia di un alloggio e di un’assistenza che prescinde da quella esclusivamente sanitaria, comprendendo anche bisogni della comune vita umana (vitto, pulizia, hobby, riposo, esercizio fisico e mentale, ecc.).

 

4. Mentre nella casa di cura l’alloggio e il vitto sono funzionali alla cura, nella casa di riposo la cura è funzionale all’alloggio e al vitto cioè non è la cura la finalità principale della casa di riposo, ma è un elemento da garantire parimenti agli altri, non essendo necessario che gli ospiti siano tutti malati.

 

5. Del resto l’imputata non ha effettuato altre prestazioni di carattere infermieristico che potessero esulare dal principio discriminante dell’aiuto sostitutivo, né ha agito contrariamente alle prescrizioni mediche di automedicazione, né ha fornito istruzioni o consigli infermieristici, né si è palesata come infermiera. Quello che ha fatto, tra l’altro non sistematicamente come se si fosse atteggiata ad infermiera, è stato quello di sostituire il parente che avrebbe dovuto somministrare il farmaco all’ospite. Infatti si è attivata in assenza di un aiuto e in assenza dell’infermiere senza mai pretenderne la sostituzione.

 

In definitiva, anche se la questione appare non deontologicamente condivisibile, in assenza di danni alla persona e, quindi, strettamente sul piano penale, alla luce della normativa in questione, non si ritiene di censurare la sentenza, anche perché diversamente, offenderebbe anche la categoria del medico non essendo la somministrazione dei farmaci, come precisa Cassazione, esclusiva prerogativa dell’infermiere ma anche del medico.

 

L’Associazione A.D.I. intende avvicinare il mondo sanitario a quello giudiziario e viceversa, spiegando al’uno le ragioni dell’altro affinché non ci siano contraddizioni e la certezza delle regole del giudizio sia concordemente univoca e non separatrice.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati;

 

Dott. LATTANZI Giorgio - Presidente - Dott. IPPOLITO Francesco - Consigliere - Dott. COLLA Giorgio - Consigliere - Dott. CONTI Giovanni - Consigliere - Dott. MATERA Lina - Consigliere - ha pronunciato la seguente;

 

sentenza sul ricorso proposto da;

P.M.T., n. a (OMISSIS);

avverso la sentenza in data 3 ottobre 2008 della Corte di appello di Torino;

Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dott. Conti Giovanni;

Udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Selvaggi Eugenio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito per la ricorrente l'avv. Monti Paolo, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

 

FATTO E DIRITTO

 

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Torino confermava la sentenza in data 20 gennaio 2006 del Tribunale di Vercelli, sezione distaccata di Varallo, appellata, tra gli altri, da P. M.T., condannata, con le attenuanti generiche, alla pena di Euro 300 di multa, in quanto responsabile del reato di cui all'art. 348 c.p., per avere, in qualità di coordinatrice della Casa di Riposo del Comune di (OMISSIS), esercitato abusivamente il ruolo di infermiera (in (OMISSIS)).

 

Osservava la Corte di appello, sulla base essenzialmente delle dichiarazioni della teste A.E., infermiera professionale nella Casa di Riposo, che la P., non avendone titolo, aveva non solo esercitato abitualmente mansioni proprie dell'infermiere generico (quali iniezioni intramuscolo e insuliniche nonchè somministrazioni di farmaci) ma, almeno in un caso, tentato, pur senza riuscirvi, di praticare un prelievo ematico e finanche dato disposizioni per interrompere la terapia disposta dal medico. Tanto integrava il reato di esercizio abusivo ella professione paramedica, ai sensi del D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225.

 

Ricorre per cassazione l'imputata, a mezzo del difensore avv. Paolo Monti, il quale deduce;

 

1. Nullità della sentenza per mancata indicazione del fatto contestato: nel capo di imputazione si addebita all'imputata di avere esercitato abusivamente il ruolo di infermiera non essendovi abilitata, ma non sono affatto indicate le specifiche condotte dalla stessa poste in essere, in violazione dell'art. 555 c.p.p. (art. 552 c.p.p., comma 1, lett. c), secondo cui il decreto di citazione a giudizio deve contenere "l'enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa".

 

2. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della responsabilità penale.

 

Secondo alcune testimonianze, l'imputata, come dalla stessa parzialmente ammesso, si sarebbe limitata in qualche occasione a somministrare ai pazienti le terapie insuliniche, effettuare alcune medicazioni e praticareiniezioni intramuscolari.

 

Si tratta di atti relativamente liberi, che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, non integrano il reato di cui all'art. 348 c.p. se effettuati sporadicamente e in assenza di retribuzione; e la P. riceveva retribuzione esclusivamente per il suo incarico di coordinatrice della Casa di Riposo, non percependo alcun ulteriore compenso per queste saltuarie prestazioni di assistenza ai ricoverati, rese a mero titolo di volontariato.

 

La terapia insulinica o l'assunzione di farmaci contro la pressione arteriosa si praticano generalmente in via di automedicazione e, trattandosi di soggetti anziani, in mancanza temporanea di personale sanitario, la P. si era prestata generosamente, senza alcun tornaconto personale, a somministrare occasionalmente ai pazienti, alle ore stabilite, tale tipo di cure secondo le prescrizioni del medico. Su questi rilievi la Corte di appello non aveva fornito alcuna risposta.

 

Quanto al presunto tentativo della P. di praticare una iniezione in vena, la circostanza, del tutto isolata, si ricavava esclusivamente dalla testimonianza dell' A., che ha espresso al riguardo mere impressioni e, al pari di numerosi soggetti operanti nella Casa di Riposo, ha comunque precisato che mai l'imputata in sua presenza aveva eseguito prestazioni infermieristiche di alcun genere.

 

3. Violazione dell'art. 348 c.p. (norma penale in bianco) sotto il profilo della inesistenza di un atto avente forza di legge idoneo a determinare le attività per le quali sia richiesta una speciale l'abilitazione dello Stato, non avendo tale forza i Decreti del Ministro della Sanità del 30 gennaio 1982 e del 14 settembre 1994, n. 739 citati nella sentenza impugnata; e comunque riferendosi la norma ai soli soggetti che esercitano una libera professione e non ai dipendenti pubblici, quale e' la P..

 

Ad avviso della Corte il secondo motivo di ricorso è fondato, restando così assorbiti in tale statuizione i restanti motivi.

Alla imputata sono contestati fatti di esercizio abusivo della professione di infermiere, consistiti, nell'avere in una occasione tentato di praticare un prelievo ematico, in altre effettuato iniezioni insuliniche o intramuscolo ai pazienti ricoverati nella Casa di riposo di (OMISSIS) dalla stessa diretta.

 

Quanto alla prima condotta contestata, va osservato che di essa tace del tutto la sentenza di primo grado, mentre quella di secondo grado si limita ad affermare che la teste infermiera professionale A.E. ne aveva riferito, senza però che di questa deposizione sia offerto alcun significativo particolare, tanto più necessario trattandosi di un supposto tentativo di compiere un atto paramedico, se non quello rappresentato dal fatto che la A. si era recata presso il letto di un anziano paziente per effettuare un prelievo di sangue e di avere visto in tale occasione che il paziente presentava dei "segni" sul braccio e che la P. era vicino al suo letto.

 

Da tale radicale carenza di indicazioni circa le circostanze dal fatto deriva l'assenza di prova della condotta contestata.

 

Quanto alle restanti condotte, esse consistono in atti che non rientrano nelle mansioni riservate secondo le norme di legge alla professione di infermiere, e non implicano specifiche nozioni o particolari abilità o conoscenze tecniche.

 

Essi pertanto, ove eseguiti non a titolo professionale ma per sopperire saltuariamente alla carenza del personale infermieristico, rispettando le cadenze, i tempi e le modalità stabilite dal medico (come nella specie appare dare atto la stessa sentenza impugnata), non integrano, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide, il reato di cui all'art. 348 c.p. (v. in termini Cass., sez. 6, 25 maggio 1999, Volpe; nello stesso senso, Cass., sez. 6, 5 luglio 2006, Russo; Id., 8 ottobre 2002, Notaristefano).

 

Consegue che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio dovendo l'imputata essere assolta perché il fatto non sussiste.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2010

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