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editoriale

Una donna al Governo

di Giordano Cotichelli

Il primo governo di estrema destra della storia repubblicana si è insediato e con esso anche la prima donna ad essere nominata Presidente del Consiglio. Al di là di ogni considerazione, non basta essere donna per governare bene. Non è il genere che permette un buon governo. Sono le idee e le risorse politiche, intellettuali, culturali e sociali che consentono di governare, o meglio, di lavorare bene o male al servizio della collettività. Le prove in termini negativi, e maschili, sono moltissime, ma anche le donne al potere, come tali, nella storia, non hanno dato granché prova di una bontà legata unicamente al genere.

Governo Meloni: non basta essere donna per amministrare bene

Giorgia Meloni, prima donna in Italia alla presidenza del Consiglio

Il primo governo di estrema destra della storia repubblicana si è insediato e con esso anche la prima donna ad essere nominata Presidente del Consiglio. Il tutto accade, sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto, a cento anni dalla Marcia su Roma.

Se qualcuno non si ricorda o non ha mai saputo di cosa si trattasse, non c’è nulla di male, è in buona compagnia. Sono in maggior numero coloro che hanno dimenticato cosa sia stata la dittatura fascista, o non lo hanno mai saputo, che quelli che la rimpiangono; tutta o in parte.

Certo, per la presa del potere, un secolo fa, fu necessaria la violenza dello squadrismo mussoliniano: sedi di giornali incendiate, operai in sciopero assassinati, deputati e preti ammazzati in un clima di intimidazione e menzogne dove ancora erano aperte le ferite della grande guerra e della pandemia influenzale. Ferite sociali si intende. Oggi la situazione è decisamente diversa. Un ruolo decisivo, per il risultato elettorale, lo hanno giocato le tragedie legate alla pandemia, al progressivo impoverimento della popolazione italiana e ad un sistema mediatico interessato più a rivolgersi alle budella delle persone che non al cuore e alle menti. Non da meno ha pesato il brutto sistema elettorale attuale che, se si vuole essere matematicamente sinceri, porta alle stanze del potere una coalizione che rappresenta un quinto della popolazione italiana.

Ad ogni modo una donna italiana sarà Presidente del Consiglio. Fatto sottolineato positivamente in varia misura da più parti, anche da sinistra. Su tutte, la testimonianza della direttrice d’orchestra – lei preferisce direttore – Beatrice Venezi che plaude al primo governo a guida femminile e si augura che sia l’inizio di una consuetudine. Al di là di ogni considerazione, non basta essere donna per governare bene.

Non è il genere che permette un buon governo. Sono le idee e le risorse politiche, intellettuali, culturali e sociali che consentono di governare, o meglio, di lavorare bene o male al servizio della collettività. Le prove in termini negativi, e maschili, sono moltissime, ma anche le donne al potere, come tali, nella storia, non hanno dato granché prova di una bontà legata unicamente al genere: da Caterina di Russia a Elisabetta I d’Inghilterra, da Caterina de’ Medici a Margareth Thatcher, e via discorrendo. Certo la premier israeliana Golda Meir dimostrò tutta la sua bravura, ma era figlia di una storia, di una cultura e di una idea politica – quella laburista – che hanno permesso al suo essere donna di affermarsi al meglio. Non credo che sia il caso italiano.

Insomma, governare come donna non necessariamente significa rappresentare un valore aggiunto al proprio operato. Farlo come donna portatrice di istanze femministe invece è qualcosa che può portare a buoni risultati. Ma è palese come questo – repetita iuvant - non sia il caso dell’attuale governo. I termini di analisi in merito non dipendono certo dal carattere o dalla persona stessa della Premier in carica oggi, ma dagli obiettivi e dal programma politico che essa stessa e il suo governo si prefiggeranno di mettere in campo. E, dalla lista dei ministri resa nota, qualche dubbio e qualche preoccupazione si fanno avanti.

Su un totale di 24 ministri, 6 sono donne, in pratica un 25% contro 8 donne su un totale di 22 ministri del precedente governo Draghi: in pratica un 36% di presenza. Può essere dunque la sola appartenenza di genere un parametro valutativo di buona o meno buona politica? Anche sul piano numerico? È bene dubitarne, ancor più guardando lo spessore politico e il curriculum dei ministri designati della XIX Legislatura repubblicana. Se si volge lo sguardo poi alle nuove denominazioni di molti ministeri, queste fanno intravedere quali tipo di politiche verranno portate avanti dove l’istruzione verrà declinata in termini di merito, il lavoro in termini di impresa e made in Italy (e i lavoratori? e i disoccupati?), i problemi sociali in termini di famiglia e… natalità.

E via di questo passo mostrando il taglio tutto ideologico di un governo che fa sospettare come molte scelte saranno di facciata per coprire riforme economiche e strutturali ben più devastanti di quelle rimproverate a Draghi e ai precedenti governi. Per non parlare poi del Ministero della Disabilità che, viene declinato a parte, leggendo una questione sociale e culturale, prima ancora che sanitaria, disarticolata da un’ottica globale, facendo sospettare una prospettiva di intervento unicamente monetaria, privatistica e residuale, fuori da ogni strategia di inclusione sociale.

A quanto detto inoltre va aggiunto, non potrebbe essere altrimenti, uno sguardo attento al Ministero della Salute su cui molti, probabilmente, hanno tirato un sospiro di sollievo dato che, a capo di tale dicastero, è stato nominato un tecnico: una figura conosciuta, medico e rettore universitario. Sempre cercando di non entrare nel giudizio del singolo personaggio, in realtà questa è l’ennesima prova di come si abdichi alle funzioni della politica, rinunciando a seguire programmi e obiettivi, per rifugiarsi dietro una tecnocrazia scientificamente indiscutibile.

E pensare che uno dei cavalli di battaglia delle ultime elezioni è stata proprio la lotta al Governo Draghi letto come governo dei tecnici. In questo ce ne sono ben 5, in percentuale simile a quella delle stesse donne. Al di là di tutto, la realtà è che questo governo continuerà lungo il percorso dei tagli del welfare, della privatizzazione dei servizi e della sanità pubblica, della destrutturazione delle garanzie sociali e dei diritti lavorativi e civili acquisiti.

A fronte di un Ministero della Famiglia, della Natalità, e delle Pari opportunità, staremo a vedere quanto verrà tutelata la libertà di essere persona in quanto donna e non in quanto produttrice di figli per la patria. No, non basta essere donna per governare bene. Ci vuole molto di più. Ed i pessimi governanti maschi (tanti, anzi troppi) della storia dovrebbero essere degli esempi – negativi – da ricordare. E non da seguire, cosa che invece si è indotti a sospettare in merito ad un governo che registra al suo interno tutti i rappresentanti di una società ricca, opulenta, arrogante e lontana, lontanissima dai problemi reali della collettività, dai bisogni degli ultimi, dalle tragedie che molte donne vivono all’interno di tossici contesti familiari, di pericolosi ambienti lavorativi, di discriminanti percorsi di carriera.

Un’ultima cosa. Quanto detto lo si fa nella consapevolezza che ancora una volta la politica governativa chiama a fare politica agli infermieri italiani. Precisiamo. Chi afferma che le infermiere e gli infermieri di questo paese, come di tutti gli altri, siano apartitici e che non fanno politica, afferma una cosa sbagliata e non vera. In primo luogo in quanto fare politica significa partecipazione. E già gli ambiti di coinvolgimento pubblico sono così rarefatti che rinunciarvi, come professionisti e come lavoratori, è decisamente sbagliato.

In secondo luogo fare politica significa essere di parte, sostenere la parte di società cui si aderisce, che si vuole migliorare. E le istanze della professione, quelle sociali, non possono essere appiattite solo sulle rivendicazioni professionali o sindacali, all’interno di una supposta neutralità scientifica. La scienza non è mai neutra.

Saranno cinque lunghi anni, forse interrotti da qualche crisi di Palazzo, dai bizantinismi italiani, o dall’impossibilità di mascherare le tante promesse fatte in campagna elettorale che già, viene da credere, cedere il passo alle compatibilità di mercato. Saranno cinque lunghi e viene da temere che, alla fine, non saremo migliori, ma continueremo quella discesa sociale che ci ha reso più cattivi, più poveri, e più soli, come singoli e come collettività.

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