Sul palcoscenico della rappresentazione posticcia di una bellezza fisica e disciplinata, tanto falsa quanto violenta, non c’è posto per le “bruttezze” della vita. 12.000 clochard sono stati passati al setaccio nei giorni scorsi per essere poi espulsi verso il nulla delle periferie della capitale francese, almeno fino alla durata dei giochi. Si solidarizza facilmente con uno sportivo sconfitto, ma si volta il capo dall’altra parte di fronte ad un suicidio in carcere, all’ennesimo femminicidio o al crollo di un pezzo delle Vele di Scampia.
Le olimpiadi possono farsi carico di tutti mali del mondo?
La Parigi che fa pulsare le luci false del brillocco olimpionico è figlia di un’umanità altra, perennemente stanca, invisibile sotto il tappeto usurato di una società violenta e oscena .
Forse le immagini più significative della cerimonia di apertura della XXIII edizione delle Olimpiadi sono quelle della delegazione algerina che ha gettato fiori nelle acque della Senna, durante la sfilata in bateaux mouches, a ricordo dei loro compatrioti massacrati e annegati nella repressione del 17 ottobre del 1961 innescata dal coprifuoco del Prefetto di Parigi – Maurice Papon, già collaboratore dei nazisti.
Il numero delle vittime non è mai stato stabilito, ma si parla di oltre un centinaio. Queste olimpiadi del 2024 , come ogni grande evento planetario, per diversi giorni saranno al centro dell’attenzione e tutto ciò che può far notizia verrà catturato, processato e rigurgitato dai media di ogni tipo.
Le polemiche sulla cerimonia di apertura e la rappresentazione “gender” del cenacolo 1 sono solo l’inizio e lasciano il tempo che trovano. Parigi è sempre all’avanguardia rispetto al continente e a buona parte del pianeta, in senso artistico, culturale e politico . Difficile farlo capire ad una classe politica provinciale priva di idee che vadano oltre il proprio accaparrarsi fette di potere.
Riflettori e commentatori mostrano già vittorie e sconfitte . Gli occhi della schermitrice brasiliana Natalie Mollhausen che guardano folli la gerarchia insopportabile del dolore di un tumore che le impedisce di continuare la gara. Le lacrime di rabbia della judoka giapponese Uta Abe sconfitta sul tatami in maniera rapida quanto inaspettata. A poco valgono gli applausi di solidarietà del pubblico.
Nessun applauso invece per due campioni del dressage squalificati: la britannica Dujardin e l’italiano Portale . La prima per maltrattamento dei cavalli in fase di allenamento e l’altro in quanto il suo cavallo si sarebbe morso il labbro in un segno rivelatore, anche questo, di sofferenza dell’animale.
Il dressage non è uno sport facile . Tanto bello da vedere, elegante, ordinato, con virtuosismi ed esercizi al limite della maniacalità e tanto difficile da sostenere non tanto per i fantini, ma per i cavalli stessi condannati ad una vita che attimo dopo attimo li stringe nella sofferenza di un corpo, di pensieri e di movenze stabilite da condannare.
Il solito buonismo animalista? Bene, provate voi a vivere una vita chiuso in gabbia, terrorizzato dagli insegnamenti del vostro addestratore che leggete come un predatore e non come uno sportivo. L’animale, il cavallo, non esiste, esiste il morso che ne ingabbia la postura del collo e della testa, esistono i comandi, il frustino, i box dove passare una esistenza rinchiusi per qualche attimo di divertimento sadico di un pubblico che non si fa domande.
È forse sport questo? Del resto, se si considera sport vedere due persone che si prendono a cazzotti, o altre discutibili manifestazioni che ci tengono ancorati ad un passato di barbarie che sembra non passare mai, c’è ben poco da meravigliarsi.
Ed allora sul palcoscenico della rappresentazione posticcia di una bellezza fisica e disciplinata, tanto falsa quanto violenta, non c’è posto per le “bruttezze” della vita, i prodotti della corsa al denaro, con le sue discriminazioni ed esclusioni sociali e le negazioni di ogni fragile umanità. 12.000 clochard sono stati passati al setaccio nei giorni scorsi per essere poi espulsi verso il nulla delle periferie della capitale francese, almeno fino alla durata dei giochi.
Nulla deve rompere la rappresentazione funzionale ai miliardari sponsor, ai procacciatori sportivi, agli esaltatori del mito nazionale, e razziale, che gonfiano petti e ipotalami sfilando dietro bandiere in molti casi sporche del sangue delle guerre, dei migranti, delle vittime del lavoro. Si solidarizza facilmente con uno sportivo sconfitto, ma si volta il capo dall’altra parte di fronte ad un suicidio in carcere, all’ennesimo femminicidio o al crollo di un pezzo delle Vele di Scampia.
Le olimpiadi possono farsi carico di tutti mali del mondo? No! Ma sono il cartellone pubblicitario imbellettato che puntualmente nasconde le fondamenta inumane di questa società, seguendo il modello insuperabile riprodotto dalla grande documentarista Leni Riefenstahl per le olimpiadi di Berlino del 1936.
Le sue riprese segnarono la storia documentarista della cinematografia e, al tempo stesso, esaltarono il modello nazista della società perfetta; a misura di quelli che vengono incensati come tali a spese di milioni di invisibili deportati nelle periferie del mondo. Esseri umani che non godranno di aiuto ed assistenza, sostegno e nutrimento, cure e protezione come le centinaia di giovani elette ed eletti, selezionati per dedizione e sacrifici, in rappresentanza dell’antropocrazia dominante.
Se tutto ciò non fosse sufficiente, basta voltare il capo per le vie del centro della Ville lumiere, dove in questi giorni, assieme a milioni di turisti, sciamano migliaia di poliziotti venuti da ogni parte del mondo per garantire un controllo multiculturale dell’ordine della città.
Parigi non merita tutto questo. Almeno chi la abita
È una città stupenda, che da sempre deve convivere con le tensioni della storia e del progresso costruite con il sudore ed il cuore pulsante di un’umanità figlia del mondo. Un’umanità che non si vede in televisione e nemmeno in giro a bighellonare per i boulevard. Sta nei retrobottega dei negozi per turisti, o dei bar, dei ristoranti. Si fuma una sigaretta rollata al volo, prende un caffè amaro o mangia un tramezzino spiaccicato nell’insopportabile afa estiva. Ruba un pezzo di tempo al ritmo infernale della fabbrica sportiva dei fiumi di denaro per i soliti pochi.
Parigi è il rumore delle rotaie in acciaio delle ferrovie e delle metropolitane di periferia che riportano a casa, a notte inoltrata, chi ha lavorato tutto il giorno. Parigi sono le strade strette nei casermoni delle banlieu, pronte ad esplodere quando la misura è colma, in attesa della secolare barricata in cui gettare la speranza di un futuro migliore: come nel 1789, o nel 1829, durante la Comune o nella rivolta studentesca del ’68 e, forse, anche negli italianissimi cori postelettorali di qualche settimana fa dove, intercalando le strofe di “Bella Ciao”, ogni tanto seguiva lo slogan ripetuto di: “Siamo tutti antifascisti”.
Ecco, sì! La Parigi che fa pulsare le luci false del brillocco olimpionico è figlia di un’umanità altra, perennemente stanca, invisibile sotto il tappeto usurato di una società violenta e oscena. Fra gli atleti e le atlete molte sperano in un futuro migliore: spettacoli, sponsor, posizioni di prestigio e fama che ripaghino i sacrifici fatti. Non pochi pagheranno con il loro stesso corpo l’aver stressato un fisico creato dalla natura per vivere e non per competere.
In qualche caso alcune medaglie sanciranno riscatti sociali e individuali che hanno potuto darsi sul palcoscenico olimpionico. Come nel caso di Jesse Owens , l’atleta afroamericano che dimostrò l’inconsistenza delle teorie razziali nell’olimpiade di Berlino del 1936. Uno schiaffo al fuhrer nazista e ai suoi complici.
Uno schiaffo forte come quello dato alla malattia da parte dei campioni di nuoto Johnny Weissmuller ed Ethelda Bleibtrey . Il primo vincitore a Parigi nel 1924 e ad Amsterdam nel 1928, l’altra ad Anversa nel 1920. Entrambi entrarono in vasca per combattere i postumi della poliomielite. Un riscatto che portò Weissmuller a diventare il celebre Tarzan della Hollywood degli anni ’30, ed Ethelda, invece, a carriera ultimata, a mettere in pratica le sue conoscenze atletiche al servizio di chi soffre, diventando practical nurse in un centro per anziani , nel 1959, a Palm Beach.
Ecco che tornano le dignità dei cavalli del dressage, dei lavoratori in subappalto, degli atleti folli per la sconfitta e degli spettatori che hanno sventolato bandiere palestinesi. Tutti in attesa che di nuovo un Tommie Smith e John Carlos, a testa bassa e con i pugni chiusi e guantati a lutto, rendano omaggio agli esclusi di ogni tempo. Accadeva allora, a Città del Messico nel 1968, continuerà ad accadere ogni volta sia necessario un palcoscenico per mostrare il vero volto della solidarietà umana.
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