La sera del 13 giugno scorso si è spento Fabio Ridolfi, dopo aver scelto di porre fine alla sua vita attraverso lo strumento della sedazione profonda. Una vita passata, negli ultimi 18 anni, costretto a letto da una tetraplegia. Passata, negli ultimi mesi, ad aspettare un aiuto per il suicidio assistito che, di fatto, non gli è stato permesso di scegliere. In poche righe ecco come si può riassumere il dramma umano di chi ha patito la trasformazione da padrone a schiavo del proprio corpo.
Una discesa negli inferi comune, purtroppo, a molte persone
Da qui in poi si potrebbero scrivere molte più righe, attingendo alla facile retorica, alla letteratura del dolore, all’ipocrisia moralista di vario tipo e, infine, allo sciacallaggio cronachistico a buon prezzo che domina molta informazione. E lo si potrebbe fare, per giunta, per una buona causa.
C’è sempre una buona causa per cui indignarsi, piangere e far piangere, come sostenere, nel nostro caso, la scelta di essere liberi di decidere della propria vita. Ma non è questo il punto, non può esserlo.
Non basta aggrapparsi all’ennesimo caso di sofferenza umana per parlare di eutanasia, di libertà individuali da rispettare e denunciare il moralismo dominante; c’è bisogno di più. È necessario un j’accuse che si levi alto, con forza e punti il dito verso la schizofrenia orrenda della società, della nostra società italiana, che genera mostri ed orrori di vario tipo.
Fabio Ridolfi se n’è andato e non lo ha potuto fare nel modo più indolore possibile, con la determinazione e il sostegno necessari. È stato fatto oggetto dell’ennesimo contendere di una politica piccola piccola, banalmente meschina, predatrice della vita altrui, tolta sistematicamente ai legittimi proprietari, per perpetrare il dolore, per oltraggiarla, per trasformare un bisogno di dignità e di libertà in una colpa.
Alla fine la persona resta sola, con i suoi familiari, tutti ulteriormente fragili, stanchi e sofferenti di una condizione non più sopportabile fatta di dolore, disabilità, dipendenza e disperazione che strappano pezzi di vita ogni maledetto giorno vissuto.
Fabio ha fatto una scelta forte, non facile, e senza alternative di sorta, sostenuto dalla sua forza morale e da quella dei suoi cari, ma ostacolato in tutti i modi da quella comunità gerarchica che lo circonda che si fa chiamare società. La stessa che ha bocciato un referendum sull’eutanasia, mentre ad ogni piè sospinto se ne inventa uno per qualsivoglia strumentalizzazione politica.
Per carità la tutela della vita innanzitutto, dalla culla alla tomba. E viceversa. Ora si nega la libertà di andarsene, ed ora si nega quella di poter venire al mondo con una scelta partecipata, voluta, libera. C’entra forse la questione dell’eutanasia con l’interruzione volontaria di gravidanza? Sì, c’entra eccome. Specie se quest’ultima viene continuamente disattesa come applicazione di un diritto, come elargizione di un servizio e come riconoscimento di una dignità di genere.
Chi si erge a giudice per affermare che non si è liberi di decidere della vita di un embrione o di un malato sofferente non si è mai interessato delle vite strappate sul lavoro, all’interno del focolare domestico, in mezzo al mare.
Si nega l’assistenza a chi vuole rendere un ultimo degno omaggio alla propria vita, per difendere un concetto astratto, brutale, e distorto della stessa, ma non ci si fa problemi, come classe politica ed economica, come cultura dominante e gerarchie istituzionali ad alimentare guerre di ogni tipo, producendo armi, impestando il mondo di mine antiuomo, vendendo morte e sostenendo l’uso della forza come espressione di libertà, di vita
Le cronache di molti fatti d’arme dell’epoca moderna narrano dell’uso, sui campi di battaglia, di uno strumento chiamato “misericordia”, costituito da uno stiletto (pugnale corto ed affilato), sembra opportunamente benedetto dalle autorità religiose, utilizzato per infliggere il colpo di grazia ai soldati gravemente feriti, al fine di evitare loro inutili e disumane sofferenze.
La misericordia, a sezione triangolare o a losanga, era in grado, dietro la pressione di un deciso colpo, di trapassare addirittura una corazza. Alcuni autori in certi casi suggeriscono che era una dotazione comune nei soldati predisposti ad assistere, raccogliere ed evacuare i feriti dal campo di battaglia. Soldati che erano stati quindi chiamati ad assolvere, anche per un solo giorno, funzioni molto simili a quelle degli infermieri.
Ecco dunque che uno strumento del passato ci permette di leggere, come sempre, meglio il presente, sottolineando il fatto che, quando si ha bisogno di uno stiletto per porre fine alle sofferenze di qualcuno, significa che come società si è fallito, perché non è l’atto in sé che rende giustizia di un bisogno estremo di dignità e di libertà, ma è il percorso di vita vissuta che deve essere costruito per dare un senso alle scelte e per dare strumenti alle stesse, al fine di fare in modo che ognuno di noi possa essere in grado di decidere ogni minuto della sua esistenza della propria vita.
Una pessima letteratura ed una altrettanto pessima cinematografia ci hanno abituati alle gesta fantasmatiche di eroi di ogni genere che, nel momento dell’estremo sacrificio, vengono uccisi dal colpo di grazia del compagno d’armi di turno.
La vita di tutti i giorni non ha bisogno di eroi e piani americani d’effetto. La vita ha bisogno di libertà e dignità, sostegno ed empatia. Forse è come diceva Fabrizio De Andrè che:
Quando si muore, si muore soli, ma non è giusto che quando si fa una scelta di vita, si venga lasciati soli.
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