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COVID-19

Riconoscersi in uno sguardo, l'essenza della cura

di Lucia Teresa Benetti

A volte non puoi vedere bene te stesso finché non lo fai attraverso gli occhi degli altri. In questi giorni di emergenza Covid-19 lo stanno vivendo sulla propria pelle sia gli assistiti che gli infermieri e tutti i professionisti della salute. Cercarsi, incontrarsi e riconoscersi in uno sguardo: in questo è racchiusa tutta l’essenza della cura.

Emozioni, occhi e mascherine

Ma gli occhi sono solo protetti da visiere trasparenti. E gli occhi si vedono. E gli occhi parlano. Sempre

La malattia è sempre brutta. Fa sempre paura. Ma questa situazione fa terrore. Già l’ansia ti prende al primo colpo di tosse, al primo “respiro corto”. A quella voglia di “mangiare l’aria” che non avevi mai provato.

Cerchi di non pensarci, ma te lo ricorda il petto che si alza e si abbassa con un ritmo strano, mai visto. E ti viene da piangere mentre chiami l’ospedale, mentre senti le sirene dell’ambulanza tacere davanti casa, mentre strani personaggi vestiti di bianco, coperti dalla testa ai piedi da una tuta che non lascia trasparire nessuna fattezza, con occhi e bocca coperti a dovere, ti prendono per portarti nell’unico luogo dove non vorresti andare, ma che agogni, perché sai che è l’unico luogo dove, forse, potrebbero salvarti.

Non hai nemmeno coraggio di guardare i tuoi cari mentre ti portano via e il respiro si fa sempre più affannoso. Eppure, nella tua mente, hai impressi anche i più piccoli segni che caratterizzano quei cari volti. Ti chiedi se li rivedrai mai più e ti senti il cuore scoppiare.

Ma non ce la fai nemmeno a piangere. Sei tutto una cannula. Anche tu hai una specie di casco trasparente che ti avvolge faccia e testa. Sei attaccato ad un respiratore per aiutare i tuoi polmoni. Non puoi parlare, non puoi chiedere. Hai dolore ovunque. Dolori fortissimi. Saranno le terapie, saranno le continue saturazioni arteriose cercate, sarà quel maledetto tubo che scende in trachea, ma la morte adesso sappiamo tutti il volto che ha.

La solitudine danza per la stanza, fra i letti, vorrebbe impadronirsi ancora di più di noi, poveri cristi, colpiti da questo maledetto virus. La mente corre a casa. Gli occhi diventano laghi pieni di lacrime. Cercano, cercano, cercano ancora.

E trovano. Trovano loro, quei personaggi vestiti di bianco, con mascherine e occhiali a visiera. Sono sempre là, stremati, sudati (e si vede dalla pelle lucida e ferita), intorno ai letti. Accarezzano piano le mani, le braccia. Sussurrano.

La loro voce qualche volta trema. O forse sembra a noi. Di sicuro parlano dolcemente quando si rivolgono a noi, ormai poco umani, ma sempre vivi

Sono veloci e precisi. Le mascherine coprono quasi tutto il viso. Ma gli occhi sono solo protetti da visiere trasparenti. E gli occhi si vedono. E gli occhi parlano. Sempre. Anche quando non dovrebbero. E allora, noi poveri cristi, leggiamo tutto. Anche di più.

E vediamo il loro dolore simile al nostro. Vediamo la loro impotenza e la loro speranza che ci aiutano a non cadere nella disperazione. Vediamo la loro vicinanza, il loro essere accanto a noi. Vediamo un atto d’amore immenso. Vediamo generosità e paura. Paura per un attimo. Perché subito, nuovamente, quegli occhi ci regalano il coraggio.

E rivediamo l’amore di chi a casa sicuramente ha dei figli, dei genitori, una moglie o un marito. Forse anche un cane che li aspetta. Esattamente come noi. Noi, poveri cristi, che stiamo soffocando. Che stiamo per lasciarci vincere. Che abbiamo sempre più paura. Che vorremmo… Che abbiamo loro che ci tengono la mano, che hanno gli occhi pieni di lacrime, che ci sussurrano qualcosa. Loro, mentre il buio ci avvolge, forse, per sempre.

Dietro mascherine, visiere e tute ci sono professionisti, ci sono persone

Dietro quella mascherina, visiera, tuta e occhiali ci sono persone, professionisti che hanno scelto una professione di aiuto.

L’aiuto che, in questo periodo così drammatico per tutta l’umanità, diventa essenziale, necessario. Un aiuto che non dimentica né l’assistenza nella sua completezza né di quanto la vera sfida stia nel “combattere” questa nuova malattia, avendo sempre di fronte la persona e la sua famiglia.

Infermieri, medici, oss, tecnici sanitari, ostetriche e tutti i professionisti stanno facendo quello che quotidianamente, da sempre, viene loro richiesto: stare con il malato, gestire la malattia, garantire un’adeguata assistenza, realizzare organizzazioni sempre efficienti e pronte a “plasmarsi” alle mutate esigenze e trasformazioni socio-sanitarie.

Dietro quella mascherina ci sono padri, madri e figli, amici, conoscenti, persone che nonostante la difficoltà comunicativa cercano con tutte le strategie di non spezzare il “contatto” con le persone assistite e, nonostante la barriera fatta di filtri e “protezioni”, si cerca di far cadere la paura della malattia, tenendo lo sguardo fisso al fine ultimo: la cura.

E lo sguardo è il vero protagonista. Abbiamo visto, immortalato da alcuni fotografi, il sacrificio lavorativo di molti, ma la cosa che maggiormente ha tutti colpito è lo sguardo. Anche se spesso è filtrato da visiere o mascherine, il contatto che si è cercato di mantenere è passato attraverso i gesti della vicinanza e là, dove questa non era facilmente realizzabile, allora, lo sguardo ha fatto il suo lavoro.

Abbiamo visto occhi lucidi, rossi, gonfi e spesso stanchi, ma mai disattenti o lontani dallo sguardo dei malati o dei parenti che cercavano e cercano risposte, accoglienza e comprensione. È vero che “quasi nulla deve essere detto quando sai usare gli occhi” (Tarjei Vesaas).

Abbiamo sempre posto attenzione agli aspetti tecnici e ad imparare dalle migliori evidenze scientifiche come affrontare le patologie, assistere i malati, gestire le fasi riabilitative. Lo stiamo facendo sempre di più come professione infermieristica anche attraverso i nuovi modelli assistenziali: infermiere di famiglia e comunità, organizzazione specifica e personalizzata nei setting assistenziali, nuove modalità di gestione del territorio.

Nessun corso ha mai preparato ad affrontare una comunicazione efficace soprattutto in certi momenti, ma questa situazione emergenziale ci ha mostrato, ancora una volta, come la narrazione spesso risieda dentro di noi. E se le parole alle volte possono diventare difficoltose, lo sguardo può fare davvero miracoli. Ovviamente non siamo soli: i malati stessi ci hanno insegnato da sempre che: “A volte non puoi vedere bene te stesso finché non lo fai attraverso gli occhi degli altri” (Ellen DeGeneres).

Editorialista

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