È uscito da poche settimane, su Netflix, il film: The good nurse, storia vera di un serial killer in veste di infermiere. Ben condotta la regia di Tobias Lindholm, che ha potuto beneficiarsi della bravura di un cast di attori in grado di dare alla pellicola tutto il pathos del thriller e del docu-film che, nei fatti, è stato realizzato (l’infermiere killer) e trasmesso sulla stessa piattaforma televisiva. Fra gli attori è giusto citare almeno i principali: Eddie Redmayne (The Danish girl) nei panni di Charles Cullen, Jessica Chastain (Interstellar) la collega Amy Loughren, Nnamdi Asomugha e Noah Emmerich (interpretava l’amico di Jim Carrey in The Truman show) nei panni dei due poliziotti investigatori.
Un tributo di vite pagate alla logica del profitto e dell’omertà
La pellicola parla della storia di Charles Cullen, infermiere serial killer che in poco più di tre lustri di attività, fra il 1987 e il 2003, ha ucciso 29 pazienti accertati e circa 400 quelli di cui se ne sospetta una sua diretta responsabilità nel decesso senza però, da parte degli inquirenti, essere riusciti a provarlo.
Sembrerebbe la solita, tragica e crudele storia di un angelo della morte, di un infermiere che invece di essere un professionista della salute e dell’assistenza, si trasforma in un assassino. E già questo potrebbe bastare quale utile divulgazione di un esempio negativo cui prestare attenzione; monito che sottolinea quale grande potere un infermiere, ed ogni sanitario in generale, possiede sulle vite umane.
Averne la consapevolezza non serve tanto a non trasformarsi in pericolosi omicidi, quanto mostra la polarità criminale controlaterale dell’idilliaca figura nightingheliana dell’infermieristica e, stretto fra il bene e il male, c’è tutto un mondo grigio, fatto di sfumature in cui i comportamenti assistenziali, buoni o cattivi che siano, si mostrano per quello che rischiano spesso di apparire: atti esperiti nei confronti di pazienti resi oggetti passivi delle azioni dei sanitari. Il confine fra l’essere degli angeli salvatori o dei vili aguzzini è meno netto e robusto di quanto si possa credere, di quanto il mainstream lasci immaginare.
Quanto detto però non è che una piccola parte del messaggio che il film ha la capacità di veicolare all’interno del contenitore narrativo e spettacolare. C’è di più di quanto ogni comune spettatore possa registrare e che, forse, un infermiere può cogliere con maggiore facilità.
Se si volge lo sguardo, infatti, verso il contesto socio-sanitario ed economico in cui la storia di Cullen si dispiega si colgono molti rilievi interessanti. In primo luogo, si vedono i due protagonisti impiegati come infermieri in un reparto di terapia intensiva dove applicano un modello assistenziale simile al primary care, teoricamente molto prossimo ad un’assistenza personalizzata, ma nei fatti, e questo è quanto mostra il film, molto duro da sopportare sul piano lavorativo.
L’infermiera amica di Cullen ad un certo punto non riesce ad assistere i pazienti a lei assegnati, in quanto è malata e deve evitare ogni tipo di sforzo. Cullen l’aiuterà – perché è un bravo infermiere – e le fornirà anche alcuni farmaci, presi di trafugo, nonostante i programmi personalizzati e controllati di prelievo dei medicinali gestiti da un software. Programmi che teoricamente potrebbero evidenziare cattivi o inappropriati usi dei medicinali, ma che si rivelano inefficienti nell’impedire allo stesso Cullen di appropriarsi di dosi anomale di digossina o di insulina usate per uccidere i pazienti.
Insomma, l’armadietto dei farmaci robotizzato e l’assistenza personalizzata che tante volte sono state tirate in ballo in decine di eventi ECM, per mostrare come il progresso sanitario si realizzi e come le indicazioni provenienti dagli Stati uniti vadano seguite con attenzione, svelano molti lati deboli.
Ma c’è dell’altro. Molto di più. Amy e Cullen diventano amici perché quest’ultimo aiuta la collega a sopportare meglio il turno di lavoro – come detto – in quanto cardiopatica ma, dato che è ancora in prova come neoassunta, non ha acquisito il totale diritto ad avere una copertura sanitaria che le permetta di curarsi, assentarsi dal lavoro per malattia, eseguire l’operazione al cuore che le servirebbe.
Il film in pratica svela il lato oscuro di quella privatizzazione selvaggia del welfare che domina gli USA e che ha preso enormemente piede anche nel Bel Paese. Una privatizzazione dove la cura e l’assistenza sanitaria hanno come fine il profitto e non la salute umana. E a rafforzare ancor più questo assunto c’è proprio la vicenda dell’infermiere serial killer.
Il film e il documentario rivelano come nella sostanza sia stato permesso di agire impunemente a Cullen da parte delle varie amministrazioni sanitarie sotto le quali ha prestato servizio, unicamente per non metterle in cattiva luce. Le tante morti sospette registrate hanno portato in qualche caso all’allontanamento dell’infermiere dal lavoro, ma non di più. Una progressiva e criminale opera di insabbiamento, forse più omicida dello stesso assassino, si è realizzata nel tempo, unicamente per… non rovinare la reputazione commerciale dell’ospedale coinvolto.
A tale proposito risulta esemplare il comportamento della responsabile del dipartimento di risk management dell’ospedale in cui Cullen ed Amy lavorano e dove verranno scoperti i primi decessi sospetti. La dirigente, proveniente dalla professione infermieristica, si preoccuperà in primo luogo che le infermiere non rilascino alcuna testimonianza di sospetti, o altro, riguardo l’esistenza di pazienti deceduti in maniera anomala.
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