La professione infermieristica ha certamente vissuto, negli ultimi 25 anni, una evoluzione legislativa fondamentale. Un po’ più lentamente si è invece sviluppata la componente “sicurezza”. Per molti anni, durante il compimento del tirocinio, gli studenti infermieri non godevano di coperture assicurative consone alle tipologie di attività che andavano via via concretizzandosi. Lo dimostra la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 31873 del 10/12/2018.
Copertura assicurativa del tirocinante infermiere, analisi di una sentenza
Fornoni Valeria, infermiera diplomatasi nel settembre del 1993, nella “scuola per infermieri professionali” di Clusone, aveva svolto (dopo opportuna profilassi attraverso il vaccino BCG) una parte del suo tirocinio formativo nel reparto di tisiologia dell’ospedale Bolognini di Seriate (Bergamo); durante tale periodo aveva contratto la Tubercolosi genito peritoneale con spondilotiscite tubercolare L3-L4.
Una volta diagnosticata la patologia, l’infermiera in questione denunciò la allora USLL n. 10 di Albino, chiedendo il risarcimento dei danni derivati dalla malattia.
Primo grado di giudizio
Il primo grado di giudizio ritenne non fondato il ricorso motivando tale scelta con la non appartenenza della Fornoni al personale dipendente, per cui non esisteva nessun rapporto contrattuale, di conseguenza all’azienda non poteva essere attribuita nessuna responsabilità riconducibile all’art. 2087 c.c.:
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Secondo grado di giudizio
Anche il secondo grado di giudizio, in sintesi, rigettò il ricorso dell’infermiera, affermando che “l’ospedale aveva dimostrato di avere sottoposto la Fornoni a vaccinazione che, come avviene nella quasi totalità dei casi, è sufficiente ad impedire qualsiasi contagio”.
La linea difensiva dell’infermiera mirava ad ottenere il cosiddetto nesso di causalità tra l’insorgenza della malattia e la permanenza nel reparto di tisiologia.
La Corte di Cassazione ha però rilevato altri aspetti; si tenga conto che il giudizio della Cassazione è di mera legittimità e non di merito, punta quindi a garantire l’esattezza dell’osservanza della legge e l’uniforme interpretazione della legge stessa. Ha quindi il compito di riesaminare le sentenze o i provvedimenti emessi nei precedenti gradi di giudizio e assicurarsi che la legge venga applicata nel modo corretto.
In virtù di tale precisazione la Corte Suprema di Cassazione IV Sezione Lavoro, attraverso la sentenza sopra indicata non riconobbe il nesso eziologico, in quanto l’integrità psico-fisica del lavoratore è fonte di responsabilità contrattuale e risarcitoria, che sorge qualora la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche.
Nel caso in questione la patologia può essere anche conseguenza della qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o può essere insorta per una causa non addebitabile al datore, visto che lo stesso ospedale aveva comunque adottato tutte le misure imposte dal legislatore o suggerite dalla tecnica e dalle regole di ordinaria prudenza.
Queste considerazioni specifiche hanno portato la sopra menzionata Corte a rigettare il ricorso della Fornoni, condannandola al pagamento delle spese del giudizio.
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