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L’Africa e l’amore che ho toccato

di Silvia Ancona

Tante volte ho sentito parlare dell’Africa, di quanto ti possa cambiare la vita un’esperienza di missione lì, di come tutti i volti che incontri e che tocchi ti lascino un’impronta indelebile sulla pelle. Vedi il luccichio negli occhi di chi vuole trasmetterti a pieno tutte le sensazioni e le emozioni che ha provato, sapendo che scarsamente ci riuscirà, perché è la sua storia e non la tua. Allora quello che tu puoi fare è fidarti delle sue parole e delle sue emozioni e scegliere di partire. A maggior ragione se sei un’infermiera neolaureata che scoppia dalla voglia di prendersi cura degli altri in qualsiasi modo.

Il viaggio dove per la prima volta mi sono sentita al mio posto: Africa

È così che ho deciso di regalarmi un bel viaggio di un mese dopo la laurea, prima di essere catapultata nel mondo del lavoro. Sono partita per l’Africa il 29 dicembre 2018 e sono tornata il 30 gennaio 2019. Un mese intenso in cui ho sperimentato per due settimane la vita quotidiana di chi vive nei villaggi e per altrettanto tempo la vita e il lavoro di un infermiere che presta assistenza in quella realtà.

Siamo partiti in 19, ragazzi di età miste, obiettivi diversi e anche tempi di permanenza differenti, ma tutti in viaggio verso un’unica destinazione: Etiopia. Dall’aeroporto di Milano abbiamo volato fino ad Addis Abeba e un volo interno ci ha spostati a Jimma, dove un furgoncino verde flash ci aspettava per portarci alla meta di arrivo: Gassa Chare.

È così che abbiamo viaggiato per altre 7/8 ore sulle strade sterrate che caratterizzano l’Africa, piene di buche e di sassi, immerse nella natura. Eravamo stanchi, affamati e sudati, ma è stato lì che per la prima volta ho provato la sensazione di trovarmi esattamente nel posto in cui volevo e dovevo essere.

Progetto Scout

Le prime due settimane a Gassa Chare sono state molto dinamiche. Il nostro progetto era quello di entrare un po’ nella vita quotidiana di questo villaggio, in particolare nella vita dei bambini e dei ragazzi adolescenti.

Per questo motivo, avendo saputo che gli scout sono una realtà ben radicata in quella zona, abbiamo provato ad instaurare una relazione di collaborazione con loro. La mattina incontravamo i capi scout, giocavamo con loro e cercavamo di proporre loro giochi/attività che avessero alla base un fine preciso (ad esempio “la lealtà” o “il gioco di squadra”), mentre al pomeriggio cercavamo di riproporre gli stessi giochi al centro scout con tutti i bambini.

La vita da infermiera a Bacho

Le ultime due settimane io e la mia amica Ilaria siamo state trasferite a Bacho, un villaggio molto più piccolo di Gassa Chare dove è presente una piccola clinica medica gestita da Stefano, un medico italiano missionario che ha scelto di dedicare tutta la sua vita a questo lavoro.

Ad oggi lui dà lavoro a sette persone, tre delle quali lavorano dentro la clinica, una come infermiere e due come aiutanti. Quello che ho fatto inizialmente è stato entrare un po’ in punta di piedi nella loro routine giornaliera.

Ero molto curiosa di vedere come lavorassero insieme, chi si occupava di cosa, gli orari e i turni di lavoro, ma è bastato molto poco per farmi capire che lì tutti servono per tutto, che non ci sono distinzioni, che se c’è bisogno di suturare e il medico è impegnato, allora lo deve fare qualcun altro, che si va a casa quando i pazienti sono finiti e si torna in clinica anche alle 4 di notte se c’è un’emergenza.

Ho capito subito che non avevo tempo per vedere tutto bene da fuori perché lì dentro avevano bisogno di noi

Se anche solo per un momento hai pensato che sarebbe bello partire, fallo, senza pensarci troppo, perché l’Africa è troppo grande da spiegare, ma troppo bella da vivere

Le giornate erano sempre molto piene; iniziavamo alle 8.30 e finivamo alle 12.30 e il pomeriggio dalle 15 alle 17, con orari sempre molto flessibili. Visitavamo in media 30/35 pazienti al giorno con problemi soprattutto visivi, uditivi e dermatologici, ma anche tante donne incinte che volevano solo un’ecografia e sapere che andava tutto bene.

Emozioni al quadrato

Ho imparato molto dal punto di vista professionale, ma quello che ho ricevuto a livello umano, è imbattibile.

È stata un’esperienza intensa e ho cercato di vivere ogni istante nel modo più autentico possibile: ho sperimentato l’impotenza di fronte alle lacrime di un ragazzino portatore di una grave malattia autoimmune che non aveva né soldi per curarsi né una casa dove andare, ma ho provato anche la gioia di tenere tra le mie braccia un bimbo appena nato e di fargli il bagnetto.

L’Africa mi ha insegnato tanto: l’umiltà di chi sa di non farcela da solo e chiede aiuto, il rispetto concreto e visibile che unisce i grandi e i piccoli e mi ha insegnato ad aspettare, a non avere fretta perché le cose prima o poi arrivano, valori tangibili che nella nostra realtà mi sembrano dimenticati.

Tornata a casa è stato difficile riabituarmi all’agio di questa vita, mi sentivo come dentro ad una bolla che veniva sballottata ovunque senza avere un posto preciso e volevo veramente tornare indietro.

Ho realizzato però che la mia missione non è finita, perché persone che hanno bisogno di aiuto o di qualcuno che si prenda cura di loro esistono anche qui, ma molto spesso non le vediamo.

Ed io non dimenticherò mai tutti quei bimbi che guardavano con occhi pieni di stupore anche le piccole cose e che mi hanno insegnato che anche la persona più povera o emarginata è un valore aggiunto e merita importanza.

Ho ascoltato storie che non mi appartenevano, ma che sentivo così vicine che sembravano mie e tutt’ora le porto addosso

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