L’infermiere effettua una diagnosi relativa alle risposte che una condizione di patologia produce, ad esempio, sulle attività del vivere quotidiano. Ma siamo molto fragili nell’identificare i fenomeni di cui prenderci carico, nel testimoniarne i passaggi conoscitivi, nel determinare gli esiti attesi.
Infermieri e fenomeni assistenziali chiamati a prescrivere interventi sulla base di un ragionamento diagnostico
Si parla spesso di diagnosi Infermieristica e/o Medica, si discute sulle competenze, si cerca di capire quali siano i confini d'azione di una professionalità rispetto all'altra. I cittadini sono alle volte confusi e certa informazione (compresa quella televisiva) non aiuta.
Occorre precisare che all'interno della professione stessa non sempre tutti hanno le idee chiare sull'argomento e quindi può essere facile cadere in errori interpretatitivi ed innescare delle "guerre" inutili che non giovano a nessuno, ma soprattutto non giovano ai malati che di tutto hanno bisogno meno che di divisioni o incomprensioni tra "sanitari". Molti medici e infermieri hanno ben chiara la distinzione e dove il proprio e specifico agire professionale sia indirizzato, molti altri invece ancora faticano a capire l'evoluzione e la necessaria complementarietà di azioni sulla salute dei cittadini, portatori di bisogni sempre più complessi.
Molto interessante quindi la riflessione di Paola Arcadi presidente di ASI – Accademia Scienze Infermieristiche che ci aiuta a fare chiarezza non solo semantica, ma anche concettuale sulla base di esperienze vissute con lo studio, la ricerca e la pratica clinica.
Una piccola riflessione su una parola che tanto spesso ultimamente sta diventando oggetto di contese e discussioni tra categorie professionali: diagnosi.
La parola diagnosi deriva dal greco διάγνωσις, e significa 'giudizio, valutazione' 'riconoscere attraverso'.
Dinanzi ad un problema, l’uomo - nei secoli – ha imparato ad affinare quello che viene denominato dai più "ragionamento diagnostico", e che consta in una serie di azioni cognitive che, a partire dall’interpretazione di una serie di dati raccolti, esitano nella formulazione di un giudizio su un particolare fenomeno che chiamiamo, appunto, problema. La capacità di formulare un giudizio dipende sostanzialmente da due fattori: la conoscenza del fenomeno oggetto di studio e l’incontro con il fenomeno oggetto di studio, elementi questi ultimi che vivono in una relazione di reciproca influenza. Non vi è infatti conoscenza di un fenomeno se non corroborata dall’esperienza dell’incontro continuo, ripetuto e significativo con qualcosa o qualcuno che possieda i caratteri distintivi del fenomeno stesso; per dirla in altre parole, e rubandole a Patricia Benner, colui che chiameremmo ‘esperto di un problema’ è il professionista che nella pratica quotidiana è in grado di applicare le conoscenze alle singolarità delle situazioni che incontra; ciò che permette di usare la conoscenza in modo esperto è, appunto, l’esperienza e a monte di tutto occorre possedere quell’insieme di saperi che una disciplina utilizza per comporre il corpus disciplinare di conoscenze che connotano e caratterizzano una particolare professione.
Il particolare corpus di conoscenze sul funzionamento di un'automobile conduce il meccanico ad effettuare una diagnosi relativa ad un guasto al motore, ad esempio (la mia automobile lo sa molto bene, ahimè), conduce il medico ad effettuare una diagnosi relativa ad una condizione di patologia, conduce altresì l’infermiere ad effettuare una diagnosi relativa alle risposte che una condizione di patologia produce, ad esempio, sulle attività del vivere quotidiano.
Se queste considerazioni in premessa fossero facilmente applicabili nel mondo dell’umana complessità che ogni giorno i professionisti della salute incontrano nel loro agire, non si genererebbero probabilmente le molte diatribe di cui molto leggiamo in quest’ultimo periodo e che si coagulano attorno alla parola ‘competenze’ in una forma possessiva: questa è una ‘mia’ competenza…questa è una ‘tua’ competenza. Già, purtroppo non è così.
Ma perché? Ovviamente non possiedo alcuna risposta esaustiva, credo tuttavia si possa cercare un punto da cui partire per aggredire la questione, ed è proprio utilizzando la parola ‘diagnosi’ che vorrei provare a tracciare qualche elemento da cui poter iniziare.
La diagnosi è il punto nevralgico di ogni disciplina di cura, credo si possa ben concordare con questa affermazione: in assenza di diagnosi non vi è cura, perché nulla può essere trattato se non prima identificato, e - di conseguenza- la competenza, di base o esperta che sia, fonda dunque la propria ragion d’essere sulla diagnosi.
Sarò breve e forse apparentemente ingenerosa dicendo che oggi, a mio avviso, la vera criticità che vive la professione infermieristica è quella di essere in profonda ‘crisi diagnostica’. Qualcuno potrebbe dire ‘ma come? siamo ricolmi di tassonomie, di enunciati, di titoli diagnostici!’. Certamente vero, abbiamo molti modelli, metodi e strumenti, che negli anni e in diversi contesti culturali sono stati creati e messi a disposizione della comunità professionale; siamo diventati espertissimi di metodo, abbiamo tutte le possibilità che la tecnologia ci fornisce di documentare puntualmente tutti i passaggi del nostro agire, ma siamo molto fragili nell’identificare i fenomeni di cui prenderci carico, nel testimoniarne i passaggi conoscitivi, nel determinare gli esiti attesi.
La ricerca di Accademia Scienze Infermieristiche "di quali problemi di salute si occupano gli infermieri" conclusasi lo scorso anno, ha fatto emergere una ricchezza di contenuti disciplinari, ma un’altrettanta difficoltà dei colleghi a riconoscere e a dare un nome ai fenomeni di salute di cui si occupano e che, siamo certi, ogni giorno ‘diagnosticano’ al letto del malato, nelle case degli assistiti. Le parole degli infermieri facevano riferimento moltissimo ad attività di accertamento di un bisogno/problema di salute e al diretto passaggio all’attuazione di prestazioni; mentre il percorso diagnostico appariva molto sfumato e non ben identificato.
Per ciò che riguarda la sfera di decisionalità, è invece emerso un orientamento alla presa decisionale influenzato prevalentemente dal contesto operativo di appartenenza e dal tipo di relazione che si instaura con i diversi soggetti chiamati in causa nel processo decisionale (anzitutto il legame di fiducia con il medico); la decisione in merito al percorso di risoluzione dei problemi di salute e i contenuti stessi della decisione sono apparsi molto sfumati.
Siamo dunque di fronte ad una fragilità diagnostica, che rischia di condurre a quella che definisco ‘disciplina liquida’ –utilizzando la nota metafora di Baumann – ovvero ad una disciplina altrettanto fragile e che le trasformazioni del contesto, degli attori, e del sistema salute stanno rendendo molto incerta.
Se non recuperiamo la solidità diagnostica e – dunque - disciplinare, il rischio è quello di venire erosi da altre professioni, di confonderci con altre specificità, di rivendicare competenze che però si spostano su una linea di demarcazione e di confine con altre professioni, che allora certamente cercheranno sempre di difendere il proprio ‘confine’. Se invece abbiamo chiaro che ‘diagnosi’ non è ad appannaggio della classe medica, perché NON E’ DI DIAGNOSI MEDICA CHE CI OCCUPIAMO, allora anche di fronte alle discussioni, anche di fronte alle delegittimazioni, anche di fronte a leggi, commi, articolati legislativi, non ci potrà mai essere nessuno a minare il nostro sapere e il nostro contributo specifico, perché non è nel terreno dell’autonomia sotto condizione (vedi protocolli o algoritmi condivisi) che si gioca la partita delle competenze, ma bensì nella capacità di identificare e gestire problematiche assistenziali, che con la diagnosi medica non hanno nulla a che fare, nulla.
Cecilia Sironi ben esplicita quest’ultimo mio pensiero quando afferma che: " le competenze non devono però far perdere di vista la base infermieristica disciplinare. Il concetto di espansione al contrario, tende ad approfondire conoscenze, abilità e competenze tipiche della professione infermieristica. Non si tratta di aggiungere o sommare attività nuove a quelle che tradizionalmente gli infermieri svolgono (o dovrebbero svolgere), ma di dare attuazione a ciò che è nostro e che di fatto non svolgiamo per le più svariate ragioni".
Ripartiamo da qui dunque nelle nostre discussioni con i colleghi, le istituzioni e i cittadini, ripartiamo a discutere dei fenomeni assistenziali sui quali siamo chiamati (non 'possiamo') a prescrivere interventi sulla base di un ragionamento diagnostico.
Riacquisiamo consapevolezza.
Ripartiamo da qui.
(*) Paola Arcadi - presidente di ASI – Accademia Scienze Infermieristiche
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